Per paura di proteste tibetane, la Cina vieta le spedizioni sull’Everest

Di seguito il mio articolo apparso stamattina su Il Mattino.

L’Everest chiude alle spedizioni fino alle prossime olimpiadi di Pechino. Questa la notizia circolata ieri per alcune ore ma poco dopo smentita dalle autorità cinesi. E’ stata la International Campaign for Tibet a denunciare la chiusura, riprendendo una notizia diffusa dalla China Tibet Mountaineering Association, secondo la quale la vetta sarebbe stata interdetta alle spedizioni fino al prossimo passaggio della fiaccola olimpica. Immediata la smentita. Un dirigente dell’ Associazione Alpinistica del Tibet ha dichiarato che si tratta di “voci”, che potrebbero essere nate da “equivoci” provocati da disposizioni di sicurezza, che sono state rinnovate quest’anno. Secondo sempre la stessa fonte, ci sarebbero state pressioni anche sul governo nepalese per chiudere anche il versante nepalese della montagna più alta del mondo, ma da Kathmandu hanno fatto orecchie da mercante, pur negando alcune spedizioni “per il troppo numero di richieste”. Da qualche mese, le autorizzazioni erano più difficili da ottenere. Ma dietro tutto questo sembra nascondersi la paura di Pechino che l’Everest possa diventare un palcoscenico ideale per le proteste tibetane in chiave anticinese e soprattutto che tali proteste possano trovare una eco ampliata dall’evento sportivo. La notizia (apparentemente falsa) della chiusura della vetta più alta del mondo è arrivata il giorno dopo della polemica scaturita dal rapporto del dipartimento di stato americano sui diritti umani, che riguarda anche la Cina. Gli Stati Uniti avevano annunciato in un primo momento di aver rimosso la Cina dalla lista dei paesi “peggiori violatori” dei diritti umani (nella quale Pechino compariva insieme a Birmania, Cuba, Corea del Nord, Sudan, Siria, Eritrea, Bielorussia e Uzbekistan), ma poi da Washington si sono affrettati a specificare che il rapporto considera ancora la situazione dei diritti umani negativa nel Paese, a causa della mancanza di libertà in Tibet e nel Xinjiang (la regione con una forte presenza musulmana nel nordovest del paese). Ma Pechino non ci sta. Il ministro degli esteri cinese Yang Jiechi ha dichiarato che le affermazioni americane “rivelano una mentalità da guerra fredda, fanno distinzioni basate sull’ideologia e rappresentano un’interferenza negli affari interni della Cina con la scusa dei diritti umani”.

E ieri i monaci hanno di nuovo sfidato la polizia a Lhasa. Dopo le manifestazioni di lunedì, per il secondo giorno consecutivo, migliaia di monaci hanno sfilato ieri nella capitale tibetana. Circa duecento agenti di polizia sono intervenuti con i bastoni e con i gas lacrimogeni per disperdere la folla.

Nuove proteste anche in India. Una quarantina di donne tibetane hanno preso parte a Delhi ad una dimostrazione in occasione del quarantanovesimo anniversario della sommossa femminile tibetana e sono state arrestate dalla polizia. Le donne si sono recate dinanzi all’ambasciata cinese e con il volto dipinto con i colori della bandiera tibetana hanno gridato slogan anti cinesi e hanno scritto sulle mura dell’ambasciata “free Tibet”. Trattenute dalla polizia indiana, hanno deciso di continuare la loro protesta facendo lo sciopero della fame e rifiutando di essere rilasciate su cauzione fin quando non verranno liberate senza alcuna accusa a loro carico, affermando che protestare per la libertà del proprio paese non può essere considerato un reato. Il 12 marzo 1959 migliaia di donne tibetane si riunirono in piazza e sfidando le autorità cinesi protestarono contro l’occupazione cantando slogan a favore dell’indipendenza tibetana. Molte di loro persero la vita.

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