Premessa. Se vuoi stare in India, hai bisogno del visto, di questo oggetto mitologico metà carta e metà incazzatura, quello che ti apre le porte del paradiso indiano (?). Per averlo devi fare domanda nel paese di origine o dove sei passaggio. Non so perché, ma fra qualche tempo fra Italia e India “si sono rotte le giarretelle”*. L’India rilascia i visti con il “braccio a rancio fellone”*, l’Italia pure. La seconda si difende dicendo (seguendo quello che fanno molti paesi europei) che la decisione deriva dal fatto che l’India è un paese da alto pericolo emigratorio, per cui tanti indiani con visto turistico o altro, entrano in Italia e ci restano come clandestini. Come fanno anche quelli del Bangladesh, Sri Lanka, Pakistan e altri paesi. L’India, che vanta di essere una potenza mondiale, fa lo stesso ragionamento. Già, perché a Delhi ci sono un sacco di immigrati clandestini napoletani, mentre i milanesi preferiscono emigrare a Mumbai. Sui visti e sui falsi scandali, ho già scritto questo post. In alcuni paesi come il Nepal, il visto, almeno quello turistico, te lo fanno all’arrivo in aeroporto. In India no.
Anche a me, povero giornalista, tocca fare il visto per l’India. Già, perché nonostante la signora indonapoletana faccia parte della casta e abbia un visto diplomatico come anche la baby indonapoletana, questo pover’uomo viene emarginato pure in famiglia. E così, da cinque anni a questa parte, devo fare la solita trafila. Vado al ministero degli interni, dove compilo una serie di domande e produco una serie di documenti (falsi). Qui dopo un po’ di giorni mi danno la tessera giornalistica necessaria per partecipare alle conferenze stampa governative e per avere il visto giornalistico. A me serve solo per la seconda cosa, perché non vado alle conferenze. La tessera vale per l’anno solare, significa che se il visto invece scade a metà anno, bisogna fare due tessere… Io vado sempre a farla pochi giorni prima che mi scada il visto, e puntualmente mi devo sorbire la ramanzina del funzionario, al quale spiego che sono stato male, c’ho avuto la malattia, mia moglie ha partorito tre gemelli… Con questo agognato tesserino giallo vado al ministero degli esteri dove devo presentare la stessa documentazione già data per la tessera. Non importa che carte porti, cosa hai scritto nei documenti, l’importante è che siano tanti. Ai burocrati indiani, come ai topi, piace la carta. Loro ti danno una lettera e poi con questa vai al FRRO, l’ufficio che rilascia i visti. Devi andarci alle 6 del mattino perché è pieno di afghani, nepalesi, tibetani e altri che sono in fila. Si fa una prima fila fuori, poi una seconda dentro e poi, al termine della giornata e dopo aver pagato 3000 rupie, intorno ai 50 euro, ti danno il visto. L’esperienze di burocrazia indiana riuscirebbe a far pedere la pazienza anche a Giobbe. Io l’avevo fatta anche per la patente.
Quest’anno, trattandosi dell’ultimo anno, ho voluto strafare. Poiché per questioni di famiglia e di lavoro mi trovavo in Italia alla scadenza del visto annuale, ho avuto l’infelice idea di chiedere il visto all’ambasciata indiana a Roma. Ma poiché sono il massimo dei masochisti, ho chiesto all’ambasciata italiana a Delhi di scrivere una mail per me al console indiano, chiedendo la cortesia di potermi dare il visto, di poterlo fare in meno tempo, considerando che avevo (davvero, purtroppo) mio padre in ospedale e in considerazione anche del fatto che mia moglie lavorava in ambasciata, cortesie che di solito ci si scambia fra colleghi.
Tutto speranzoso, giovedì della settimana scorsa sono andato all’ambasciata indiana a Roma. Inutile dire che non mi ha cagato nessuno. Non solo il console e il suo a cui ero stato segnalato non mi hanno pensato né ricevuto, quanto poi ho dovuto fare la fila come tutti. Passi. Mi avevano detto di portare alcuni documenti. Allo sportello, me ne hanno chiesti molti altri, che sono riuscito a far arrivare via fax. L’indiano allo sportello, devo dire molto gentile e simpatico, parlava in continuazione al telefono con il suo capo. Poco dopo è arrivata la risposta: la chiamiamo oggi pomeriggio al cellulare. Ben ho pensato io, mi diranno che posso prendermi il visto. Alle 16 ricevo una telefonata: abbiamo approvato il suo visto, venga domattina a portare i soldi e giovedì a ritirarlo perché martedì e mercoledì è festa. Io gli ho detto che stavo fuori all’ambasciata e potevo pagare i 94 euro anche subito, ma lui ha detto che accettavano soldi solo di mattina. E meno male che ero stato segnalato, che sapevano che mio padre stava a Napoli in ospedale. Non potendo tornare il giorno dopo, ci vado lunedì mattina. Nel frattempo dagli amici di Delhi era partita una nuova mail per l’ambasciata di Roma, chiedendo che almeno potessi averlo in giornata, visto che martedì partivo per Trieste. Inutile dire che hanno risposto picche e ieri, solo grazie al mio amico Cornelio, ho avuto il passaporto.
Io sono contro qualsiasi tipo di prevaricazione e contro i favoritismi, ma credo che ovviamente delle eccezioni ci possano essere. E la mia poteva esserlo, vista la posizione che occupo in India, visto che faccio il visto da cinque anni, visto dove lavora mia moglie e anche la segnalazione degli amici dell’ambasciata di Delhi. Ed invece nisba. Anzi, mi hanno anche fatto perdere più tempo del solito. Eppure mentre ero in fila, un certo signor L**i è arrivato, è andato a parlare con il console indiano, ha avuto il visto dopo poco.
Sento molta gente scontenta di come vengono rilasciati i visti a Roma. Certamente gli indiani hanno le loro ragioni. Ma qualcosa non deve andare per il verso giusto, se dinanzi allo sportello c’è questo cartello
*prego gli amici Dagherrotipo e/o Tuttoquà di tradurre per i non borbonici le due espressioni
Caro Nello,
bel pezzo, complimenti. Sfondi una porta aperta, che dico, spalancata..
Per non parlare poi del visti di tipo Business, in genere rilasciati – by definition – ad imprenditori che vengono in India per affari, e quindi a portare opportunita’ di lavoro. Come ben sai anche questi, dal luglio scorso, vengono rilasciati solo per 3 mesi, single entry. Cosi’ l’imprenditore italiano che, poniamo, dall’India se va in Vietnam e riceve poi un interessante feed-back da un indiano che aveva incontrato pochi giorni prima non puo’ rientrare in India, ma deve tornare in Italia, aspettare un’altra settimana per rifare il visto (altri 65 euroni) e poi ripartire… Ammesso che ne abbia ancora voglia.
A me sembra la classica storia dell’uomo che si amputa i genitali per far contenta la moglie. Contenti loro…
Un caro saluto da Bombay (invasa da immigrati milanesi, nun se ne po’ piu’!!!)
Fabio
Carissimo Nello, quando poi leggo i buonisti nostrani che all’indianotto di turno gli darebbero pure il diritto di voto… come dire… vorrei costringerli a vivere e lavorare SENZA aiuti per tre anni in India!
Li possino…
SE SO’ ROTTE ‘E GIARRETTELLE: Alla lettera, si sono rotte tazze, tazzine e caraffette varie. Ma si usa per dire che si e’ rotta l’amicizia.
BRACCIO A RANCIO FELLONE: questa e’ ancora piu’ sofisticata 😀 spero di tradurre bene. Il Rancio Fellone e’ una specie di granchio, a vederlo fa pure piuttosto schifo, e’ arancione e peloso. La peculiarita’ e’ che non ha chele ma solo due specie di braccini, per cui con braccio a rancio fellone s’intende il braccino corto, la mano tirata.
Giusto guaglio’?
Impeccabile la traduzione di Tuttoquà. Vorrei solo aggiungere che all’espressione “se so rotte è giarretelle” si può anche aggiungere quella che alla parola “giarretelle” sostituisce la parola “ciocie” che probabilmente sono le famose scarpe dei contadini della zona di Frosinone, detta appunto Ciociaria.
Per quanto riguarda il Rancio Fellone, probabilmente Tuttoquà ha preso un granchio. Il Rangio Fellone ha due chele moolto robuste, capaci di lasciare segni sulle dita dell’incauto che tenta di catturarli. Per una lezione sulla cattura corretta di questi abitanti delle scogliere potete usufruire della competenza di mio figlio Filippo, vero flagello di questa specie. Probabilmente il detto “braccio a rangio fellone” deriva dal fatto che una volta portata la chela verso la bocca, è estremamente difficile per l’uomo portarla verso l’esterno. Giusto per completare l’informazione agli abitanti al di là del Volturno segnalo anche l’altra varietà di granchio presente in abbondanza negli anfratti dei porti e scogliere. E’ un granchio di taglia leggermente più piccola, dal colore nerastro e dalle chele senza peli e con una forza notevolmente inferiore. Trattasi del “rangio cacataro”, che nel sugo non aggiunge l’incomparabile aroma del “fellone”
Per conoscere da vicino:
http://www.panoramio.com/photo/5149833
è un esemplare pescato all’isola di Procida
Quello citato da Tuttoquà è la granceola, che nel mar Tirreno dalle nostre parti può raggiungere anche dimensioni considerevoli, ma che ha delle piccole chele. In tempo di fame si utilizzava per fare dei brodi, e soprattutto a Torre del Greco i pescatori che se li ritrovano impigliati nelle reti li chiamano “crape” (capre) per via delle alghe e delle escrescenze sul corpo centrale.
E’ vero, ho confuso i granchi Mimmuzzo. Pero’ allora la metafora di Nello che vuol dire? Che il visto se lo tengono stretto ed e’ impossibile toglierglielo dalle chele?
traduttori precisi e scrupolosi, non c’è che dire….
Windowson, cosa credi che stiamo qui a pettinare le bambole? 😀
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