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Proteste in Nepal per sostituzione bramini

Ancora scontri e proteste in Nepal dopo la decisione del governo di cambiare i vertici del piu’ importante tempio induista. Alla fine dello scorso dicembre, il governo maoista ha deciso di sostituire i due bramini indiani a capo del tempio di Pashupatinath a Kathmandu, il piu’ sacro del Nepal, con due bramini nepalesi, rompendo la tradizione. Ne sono scaturite proteste e accese manifestazioni che sono sfociate in scontri con la polizia e nell’ordine della giustizia nepalese di annullare l’ordinanza. Il governo maoista ha giustificato la nomina con un normale avvicendamento, ma i bramini protestano perche’ accusano il governo di aver messo due ”fantocci” che possono essere controllati dall’esecutivo. Il tempio e’ costruito sulle rive del fiume Bagamati, poco fuori Kathmandu nei pressi dell’aeroporto, ed e’ il luogo dove avvengono le cremazioni. L’accesso al tempio e’ consentito ai soli induisti e tutt’intorno risiedono decine di sadhu, i santoni vestiti di solito d’arancione, coperti di sabbia e con i capelli stopposi. Le proteste per la nomina sono arrivate anche dall’India dove gruppi religiosi e partiti induisti, come il Bjp che ha guidato fino a cinque anni fa il Paese, hanno protestato con i diplomatici nepalesi in India e direttamente con il governo di Kathmandu. Il tribunale della capitale del Nepal ha vietato le manifestazioni intorno al sacro tempio, anche se fedeli e bramini lo hanno occupato.

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E’ finita la fiera di Pushkar, che ha risentito di crisi diverse

E’ appena finita la Fiera di Pushkar, nella quale sono stato e della quale scrivo di seguito, riportando un articolo scritto per l’occasione. Quest’anno è stato tutto in tono minore: poca gente, pochi indiani, pochi turisti, pochissimi cammelli (che poi sono dromedari). La crisi, certo, ma soprattutto la paura di attentati. Pushkar, le fiere, i luoghi dove si riunisce tanta gente sono bersagli preferiti dai terroristi. In meno di sei mesi in India sono esplose 65 bombe, che hanno ucciso quasi 300 persone. La gente era molto poca, secondo i giornali si sono registrate oltre il 40% di presenza in meno. In effetti non c’era nessuno. Comunque, è sempre una cosa particolare, spero di riuscire a postare un video che ho girato, devo prima trovare il convertitore da video del telefonino a avi.

Cammelli, mercanti, saltimbanchi e santoni, cerimonie sacre e gare tra animali. Turisti occidentali, ma anche tanti indiani. Questo e molto altro, in una curiosa mescolanza di sacro e profano non inusuale in India, e’ Pushkar. Piccola cittadina del Rajastan, Pushkar e’ considerata, insieme a Varanasi (l’antica Benares, dove scorre il Gange) la citta’ piu’ sacra dell’India.  E’ conosciuta infatti per il suo lago sacro e per l’unico tempio dedicato al dio Brahma esistente nel mondo. La leggenda dice che questo lago si e’ formato dove Brahma – il creatore dell’universo nella religione indu’ – fece cadere un fiore di loto in un giorno di luna piena. La tradizione induista considera di buon auspicio bagnarsi in quelle acque, specie durante il plenilunio d’autunno. Pushkar e’ diventata cosi’ uno dei piu’ frequentati luoghi di pellegrinaggio non solo in India ma in tutta l’Asia. Qui, come a Varanasi, ogni giorno, centinaia di pellegrini si recano a compiere le abluzioni e i riti di purificazione. Ma la differenza con Varanasi e’ tangibile: a Pushkar, sui ghat che degradano verso il lago, non si compiono cremazioni. L’atmosfera e’ piu’ festosa. Il contatto con la morte, evidentissimo a Varanasi, qui non si avverte. Al lago i pellegrini vanno soprattutto a lavarsi, a rilassarsi, a pregare e a  giocare. Lungo la strada che porta al lago santoni di ogni tipo e bramini recitano preghiere e promettono buoni auspici. La citta’ ha fatto pero’ della spiritualita’ un lucroso commercio: finti santoni costituiscono per i turisti una vera e propria attrazione: bizzarramente abbigliati, con il volto e il corpo dipinto con colori vivaci, alcuni di essi arrivano a spillare a turisti creduloni anche fino ad 80 euro per una ‘puja’ (la preghiera indu’ di buona sorte) o fino a dieci euro in cambio di una foto. Non e’ raro udire di sprovveduti raggirati o derubati da piccoli truffatori e ladruncoli.  Ma Pushkar e’ soprattutto la citta’ della fiera dei cammelli: ogni anno, a novembre, in coincidenza con il periodo di luna piena, migliaia di cammelli, cavalli e altro bestiame vengono messi in vendita, fra gare, danze, musica ed altri intrattenimenti. Sono circa 200.000 le persone che puntuali arrivano ogni anno per partecipare alla festa. Oltre 150.000 animali guidati dai loro proprietari, mercanti e allevatori, giungono da tutta l’India. In uno Stato basato su un’economia prevalentemente rurale ed agricola, dove per molti possedere un cammello e’ gia’ sinonimo di ricchezza e benessere, la fiera di Pushkar costituisce l’occasione piu’ ghiotta dell’anno per realizzare buoni guadagni, destinati, in buona parte, a fronteggiare il periodo buio dell’inverno ormai alle porte. L’anno scorso, per la prima volta, proprio a testimoniare la grande importanza di questo animale per l’economia della zona, una Organizzazione non governativa (Ong) indiana ha istituito a Pushkar, per i giorni della fiera, un ambulatorio veterinario dove poter gratuitamente far curare i cammelli ammalati o feriti. A causa delle ristrettezze economiche, infatti, spesso i proprietari non sono in grado di far curare i cammelli malati e sono costretti a lasciarli morire. Una perdita enorme per la loro economia familiare. In citta’, durante i giorni della fiera, cammellieri e proprietari di bestiame si accampano nella grande spianata desertica che si trova a pochi passi dallo stadio: qui restano per una settimana (tanto dura la fiera), qui dormono, qui effettuano le operazioni di compravendita, qui fanno (spesso a beneficio dei turisti) la tosatura dei cammelli. Intanto nello stadio, poco lontano, si svolgono competizioni tra animali, parate e spettacoli folcloristici. Lo spazio della fiera e’ circondato da bancarelle che vendono souvenir, oggetti di artigianato locale, cibarie, frutta. Le famiglie portano i bambini sulle giostre o a vedere lo spettacolo dell’uomo che mangia il fuoco. Cittadina tranquilla per il resto dell’anno, per sette giorni Pushkar si trasforma completamente, dall’alba al tramonto. Solo la sera, col calare del buio, la citta’ ritorna al silenzio. I turisti si rintanano nei numerosi alberghi intorno al lago, altri preferiscono alloggiare nelle apposite tendopoli per provare l’ebbrezza di dormire una notte nel deserto. Cammellieri, mercanti e bestiame si accampano nella spianata per concedersi poche ore di riposo, in attesa dell’alba e di una nuova giornata di affari, colori, musiche e commerci.

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A Calcutta, tra arte e spiritualità

Non c’è che dire, Calcutta è sempre la stessa. Bella, sporca, disordinata, decadente, fatiscente, coloniale, come solo Calcutta può esserlo. Una città unica al mondo, anche se non so se potrei viverci. La qualità della vita è veramente bassa e non resisterei di continuo in quei club internazionali post coloniali che rappresentano l’unico svago degli expat nella città della gioia.

Ci sono tornato due fine settimane fa, per vedere una mostra d’arte di Serena, la figlia di Sergio. La mostra GenNextIII mi ha impressionato, ci sono raccolte opere di giovanissimi artisti contemporanei da tutto il mondo, anche se principalmente indiani. L’arte contemporanea in India si sta sviluppando molto e gli artisti indiani sono molto richiesti. Basti pensare che il gallerista di Calcutta che ha organizzato la mostra, mi ha mostrato un suo libro nel quale analizza il prezzo di beni di investimento (oro, etc) confrontandoli con le opere d’arte. Queste ultime hanno avuto un valore in crescita costante.

Serena ha presentato due opere, davvero interessanti. Infatti è stata molto apprezzata e ha conquistato le prime pagine dei giornali della capitale culturale dell’India, un titolo che nessuna città del subcontinente riuscirà mai a strappare a Calcutta dove, in effetti, al di là del fatto che vengano organizzate numerose manifestazioni, si respira un’aria diversa (e non a causa dell’inquinamento) tra i suoi vecchi palazzi.

Immancabile il pranzo delizioso con i colleghi di Marianna al consolato di Calcutta. Stavolta, a differenza della prima, siamo andati in un altro club, il Tollygunge club, uno dei più vecchi ed esclusivi, nonchè grandi, con un campo di golf e i ricchi indiani che, al posto degli inglesi colonizzatori, ora lo frequentano.

Ma l’andata a Calcutta è coincisa anche con la Durga Puja, la più grande festa dei bengalesi, durante la quale si venera Durga, una delle incarnazioni, come Kali, di Parvati, la moglie di Shiva. In onore della dea vengono realizzate statue in cartapesta raffiguranti Durga con le sue almeno sei braccia, tutta ornata di gioielli, vestiti scintillanti, e circondata da altre raffigurazioni sacre e mitologiche indù.

Queste statue, che sono continuo oggetto di venerazione, vengono custodite in pandal, dei templi costruiti per l’occasione utilizzando cartapesta, bambù e altro. Al termine della festa, i pandal vengono distrutti e la statua della dea lasciata nelle rive del Gange o dello Hoogly, il fiume di Calcutta.

La festa è scintillante, c’è casino dovunque. Calcutta è la capitale della Durga Puja e tutti sono eccitati, anche se quest’anno c’era il problema della Tata e la chiusura della fabbrica a rendere le cose più tristi.

Anche noi abbiamo visitato dei pandal e, soprattutto, siamo andati (Marianna, Anna Chiara, io e Oscar, un amico svedese di Sergio), a visitare il Kali Temple, al Kali Ghat, il tempio più sacro di Calcutta che ha dato il nome alla città, dedicata alla incarnazione di Parvati che distrugge i demoni, assetata del loro sangue da qui la faccia nera della morte e la lingua rossa. Sin dalle prime luci dell’alba centinaia, poi migliaia, di fedeli affollano la piccolissima struttura per pregare la piccola statua nera della dea. All’esterno, oltre ai negozietti che vendono oggetti rituali, pellegrini e mendicanti, anche gli animali che vengono sacrificati alla dea. Al Kali Temple, infatti, è ancora viva la tradizione del sacrificio animale. Fino a qualche anno fa, venivano sacrificati anche gli uomini, ma la pratica è stata vietata dalla legge.

Per ovviare a questo, gli indiani hanno escogitato il sistema del cocco. Questo frutto viene tagliato in maniera tale che ne resta il cuore e un ciuffetto, che simboleggia una testa con capelli. Il cocco, inoltre, contiene il latte che, una volta rotto, si disperde, come il sangue quando si taglia un corpo. Infine, quando si apre un cocco, all’interno si trovano tre puntini neri, come se fossero due occhi e un naso. Rompere e offrire alla dea un cocco è come offrire un umano.

Per ovviare alla fila che alle 7 etra già immensa, abbiamo usato il metodo indonapoletano. Abbiamo beccato uno dei tanti brahmini che vogliono obbligatoriamente farti fare una puja, una preghiera rituale, gli ho dato un po’ di rupie che lui ha sapientemente diviso con la polizia, e così siamo passati davanti alla fila. Ogni santone è paese.

Ma per me la visita di Calcutta non può essere considerata tale senza tre cose: Kallol, Madre Teresa e Annamaria.

La visita ai centri di Kallol Gosh, dove abbiamo partecipato prima al coro dei bambini malati di HIV ad Anandaghar, poi assistito allo spettacolo dei bambini con ritardi mentali di Apanjan, è stata come al solito super. Questi bambini, nonostante tute le loro disabilità, hanno messo in scena alcuni quadri dalla vita di Durga e degli altri dei, rigorosamente in costume. Come guest of honour, insieme a due politici e a Sergio, ho dovuto anche tenere un discorso, mentre Anna Chiara mi faceva da claque tra la gente. Lo spettacolo e l’impegno dei bambini sono stati egregi ed è bello vedere il lavoro che fanno in questi centri per aiutare i bambini sfortunati, raccolti per strada dopo essere stati abbandonati. Un’opera alla quale tutti possono contribuire, come già fanno molti napoletani di MondoAmico. E, credetemi, i soldi sono ben spesi.

Hanno completato il quadro un fotografo fortemente strabico (non so cosa vedesse nell’obiettivo) e un operatore video con la gobba, tutto piegato.

Una preghiera sulla tomba di Madre Teresa, con Anna Chiara che porta scompiglio nel piccolo convento, presa simpaticamente in cura e passata di braccia in braccia tra tutte le suore, è immancabile.

Inutile dire che, per suggellare la visita, siamo andati a cena da Annamaria e il suo Fire and Ice, la migliore pizzeria del sub continente asiatico.

La ciliegina sulla torta del viaggio è stata la business class al ritorno. Su questa storia devo fare una premessa. Venerdì, poco prima di partire da Delhi per Calcutta, ricevo un sms dalla Jet Airways, di solito una buona compagnia, che mi avvisa che il mio volo di ritorno di domenica alle 20 era stato cancellato e che ero stato riprotetto alle 17. Significava lasciare l’albergo alle 13 visto il traffico della città. Ho chiamato il call centre, ma non c’è stato nulla da fare. Così il colpo di genio. Chiamo il responsabile stampa della compagnia, le dico che io domenica ho una intervista con il primo ministro dello stato alle 16, quindi non posso partire alle 17. Delle due l’una: o mi trovano un altro volo, oppure mi pagano l’albergo e mi fanno partire di lunedì. A meno che nono volessero dire al primo ministro che non sarei potuto andare.

Detto, fatto: ritorno di domenica su volo Indian Airlines, in business class. Con conseguente show di Anna Chiara a bordo.

Unita nota triste e negativa? Probabilmente questa è l’ultima volta che vado a Calcutta. A maggio lasciamo l’India e… chissà.

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