Grazie anche a Cico (che me l’ha segnalata), mio fraterno e storico compagno di merenda in questo momento esiliato a Doha, vi propongo questo altro esempio di democrazia e tolleranza in India.
Maqbool Fida Husain, forse il principale pittore indiano considerato una sorta di Picasso asiatico, ha riconsegnato il proprio passaporto all’ambasciata dell’India a Doha, avendo deciso di prendere la nazionalita’ del Qatar. La riconsegna del documento da parte di Husain, che ha 95 anni, mette fine ad una vicenda che ha suscitato molte polemiche nella capitale indiana, dove e’ stato rimproverato al governo di non essere stato in grado di assicurare la sicurezza ad una sua celebrita’, costretta all’esilio dall’oltranzismo dei fondamentalisti hindu. Di religione musulmana, ha cominciato giovanissimo a dipingere manifesti dei film indiani. Sue opere sono esposte in musei di tutto il mondo. Nel 2005 dipinse ‘Madre India’ un quadro nel quale la dea che simboleggia il paese e’ dipinta nuda. Stessa sorte anche per Krishna, dio molto venerato nel paese, dipinto seminudo. Questi due quadri costrinsero Husain a lasciare il paese per le proteste di settori fondamentalisti. Contro di lui ci furono manifestazioni di protesta e atti vandalici. Nel 2006 la sua casa di Mumbai fu presa d’assalto. La goccia che ha fatto traboccare il vaso e’ stato quando nel 2007 il tribunale di Haridwar decise di sequestrare tutte le sue proprieta’. Da allora Husain ha fatto la spola fra Londra e Dubai. Di recente il sottosegretario all’Interno, G.K.Pillai ha definito il pittore ”orgoglio dell’India” assicurando che contro di lui ”non ci sono piu’ strascichi giudiziari perche’ la Corte Suprema li ha archiviati come carta straccia”.
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Husain, l’India e il pennello proibito
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Violenze e morti per articolo contro il Burqa, attribuito alla Nasreen
Due persone sono morte ieri in incidenti promossi nello Stato di Karnataka (India meridionale) da gruppi musulmani a seguito della pubblicazione in un quotidiano locale di un articolo della scrittrice bengalese Taslima Nasreen sull’uso della burqa. Da anni impegnata nella denuncia della condizione della donna nel mondo islamico, la Nasreen ha dovuto abbandonare il Bangladesh ed ha vissuto per anni in esilio in Europa. Di recente ha ottenuto un visto di soggiorno di sei mesi in India. Gli incidenti, che hanno coinvolto i distretti di Shimoga e Hassan, sono stati promossi da leader musulmani locali che hanno ordinato ai negozi di chiudere i battenti e portato centinaia di persone in piazza. Un giovane a Shimoga e’ morto quando la polizia ha aperto il fuoco contro i manifestanti che stavano distruggendo moto ed automobili, mentre l’altro e’ deceduto per le ferite riportate nelle violenze generalizzate. Decine di persone sono inoltre rimaste ferite e 50 sono invece state arrestate dalle forze dell’ordine. Nella zona e’ stato imposto un coprifuoco fino a domani sera mentre centinaia di agenti presidiano le strade, tornate oggi calme. La polizia ha presentato alla giustizia una denuncia contro il quotidiano in lingua kannada che ha pubblicato l’articolo e contro il giornale in Urdu da cui esso e’ stato ripreso per ”offesa ai sentimenti della comunita’ religiosa”. La Nasreen ha negato di avere mai scritto l’articolo che ha creato una dura reazione della locale comunita’ musulmana, perchè nell’articolo che il giornale attribuisce invece alla scrittrice che non puo’ piu’ tornare in Bangladesh si sostiene che perfino il profeta Maometto non credeva nell’uso del burqa per le donne, trattandosi di ”un oggetto che soffoca la liberta’ femminile”. Interrogata dall’agenzia indiana Ani, la vincitrice del Premio Sakharov ha assicurato che ”gli incidenti di ieri mi hanno veramente scioccata. Ma io non ho mai scritto in vita mia alcun articolo per giornali di Karnataka”. ”La pubblicazione dell’articolo – dice ancora – e’ una cosa atroce. In nessuno dei miei scritti ho mai sostenuto che Maometto fosse contro il burqa. Sospetto che siamo di fronte ad un tentativo deliberato di diffamazione nei miei confronti e di alterare il mio pensiero per creare disordini sociali”.
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Arundhati Roy sull’India: come darle torto?
Ho conosciuto Arundhati Roy, l’ho incontrata diverse volte. Il suo libro non mi aveva esaltato, ma lei si. E’ una donna piena di fascino, non solo per come è ma per quello che è. Mi trova sempre d’accordo con quello che pensa e dice. E anche con quello che dice in quest’articolo. Alla faccia degli hope man, di coloro che e conoscono l’India per stereotipi, gli stessi con i quali comincia l’articolista e per i quali la stessa articolista si meraviglia che la Roy li demolisca. L’articolo di seguito è uscito su Repubblica nella pagina dei libri il 27 giugno scorso. Autrice dell’intervista, è Leonetta Bentivoglio.
Un´altra immagine dell´India: non quella di una terra riflessiva e morbida, fondata su princìpi di meditazione, yoga e pacifismo ascetico “alla” Gandhi. L´India raccontata da Arundhati Roy, considerata la massima scrittrice indiana odierna, è un paese malato, oppresso dalla violenza del fondamentalismo indù, corrotto da ingiustizie, sospinto da un separatismo proiettato in barriere di casta, etnia e religione. Da una decina d´anni questa tenace combattente («essere pacifista significherebbe accettare l´ordine costituito»), lotta con la forza delle parole contro una democrazia che definisce «guasta nelle istituzioni e ipocrita nella sua fusione predatoria con un capitalismo che giustifica ogni abuso».
È così assorta nelle polemiche, così presa dal suo impegno anti-global, che dopo Il dio delle piccole cose, l´opera prima che la rese una celebrità internazionale, non ha più scritto romanzi, optando per saggi rapidi e infuocati su questioni politiche e sociali. Eppure il passo è quasi letterario nell´uso peculiare di metafore poetiche e paradossi ironici: accade anche in Quando arrivano le cavallette, appena pubblicato da Guanda, suo editore di riferimento in Italia. Il libro raccoglie «otto interventi pubblici», spiega Arundhati Roy al telefono da Delhi, «relativi a momenti critici della vita indiana contemporanea». La sua voce emerge con dolcezza dall´amalgama sonoro di un continuo guaire, latrare e abbaiare: «Ho attorno sei o sette cani che vanno e vengono, dato che la porta di casa mia è aperta e s´affaccia su un parco. Non so più quali sono miei e quali appartengono al mondo».
In questo libro sferra attacchi feroci alla magistratura indiana. La stato della giustizia è tanto disastroso nel suo Paese?
«Accade spesso che il governo si astenga da decisioni impopolari delegandole ai magistrati, che acquistano sempre più potere e tendono a comportarsi con l´arroganza che caratterizza l´élite del paese. Di fronte a certi massacri, come quello dei tremila Sik uccisi nel 1984 nelle strade di Delhi, non c´è alcun sistema legale che soccorra le famiglie delle vittime. La cosiddetta legalità è fuori dalla portata della gente comune: nessuno può pagarsi un avvocato. La magistratura è un´istituzione che serve solo ai ricchi, ed è un sistema inattaccabile e protetto. In nessun´altra democrazia si va in prigione, com´è capitato a me, per aver criticato una sentenza: nel mio caso fu quella che nel 2001 autorizzava la costruzione di una diga gigantesca sul fiume Narmada. Mi condannarono per oltraggio alla corte».
La politica dell´industrializzazione intrapresa dall´India in questi anni sembra il suo bersaglio centrale.
«Termini come “progresso” e “sviluppo” sono diventati intercambiabili con “riforme economiche”, “deregulation” e “privatizzazione”. Al di là di una classe media ebbra di una ricchezza improvvisa, ci sono decine di milioni di persone private della loro terra e costrette a sfollare a causa di dighe, miniere e zone di speciale interesse economico. Lo strapotere dei gruppi industriali ha determinato una sorta di feudalesimo geneticamente modificato. E mentre si sbandierano pianificazioni deliranti come quella della futura urbanizzazione dell´85 per cento della popolazione, interi ecosistemi vengono distrutti e il numero dei suicidi dei contadini è arrivato a 180 mila».
Le recenti elezioni hanno portato alla nomina dell´”intoccabile” Meira Kumar alla guida del parlamento, e pochi mesi prima negli Stati Uniti è sorta la nuova stella Obama. Queste novità non la rendono più ottimista?
«La situazione dei dalit, gli intoccabili, dura da migliaia di anni, e una mossa politica come quella non può modificarla. Il parlamento fa i suoi giochi mettendo le varie comunità una contro l´altra, e se prima lo faceva in modo surrettizio ora agisce in modo scoperto. Quanto a Obama è ovvio che è molto meglio di Bush, ma niente ci fa credere che non proseguirà nello sforzo di mantenere l´America al vertice della piramide del cibo. Se c´è qualcosa che può spostare gli squilibri è la crisi economica mondiale, e io credo che nel contesto attuale il lavoro di Obama sarà simile a quello del pilota che ha dovuto far atterrare un aereo sull´Hudson: se si vuole evitare una guerra nucleare bisogna far atterrare l´impero americano con estrema cura. Ma considerando quel che accade in Sri Lanka, Pakistan, Afganistan e Iraq, si capirà che la grande novità chiamata Obama è finora soltanto un po´ di miele versato su piaghe molto profonde».
Lei scrive in inglese: non ha problemi a esprimersi nella lingua degli imperialisti?
«L´India è ricchissima di lingue e dialetti. Come figlia di madre cristiana del Kerala e di padre bengalese e induista, io sono un prodotto di diverse lingue e culture. Non c´è un linguaggio comune eccetto l´inglese, cioè la lingua dei colonizzatori. Ma in una società piena di disuguaglianze come questa possono essere imperialiste anche le lingue regionali. Pensi agli intoccabili: dal loro punto di vista, chi sarebbero i colonizzatori? Io sono contro l´idea che per affermare una certa opinione sia necessario usare una determinata lingua. Il linguaggio è funzionale: lo scrittore deve usarlo per farsi comprendere; non dev´essere la lingua a usare lui».
La lettura di Quando arrivano le cavallette può evocare l´immagine violentissima dell´India proposta dal film Slumdog Millionaire: le è piaciuto?
«No. L´ho trovato culturalmente falso, pieno di errori. E poi mostra la povertà come se fosse un fenomeno naturale».
Lei dà un giudizio problematico sul mahatma Gandhi: forse è la sola…
«Era un uomo capace d´intelligenza e di discorsi profetici: lo sono stati, per esempio, quelli che ha fatto sulla questione ambientale. Ma era troppo conservatore riguardo a certi temi, come il sistema delle caste, che non ha mai messo in discussione, e il suo pacifismo aveva risvolti assurdi: come si può invocare lo sciopero della fame in un paese dove la metà delle persone muore di fame?»
Non pensa a nuovi romanzi?
«Ci penso spesso: ho in mente belle storie. Ma la realtà attorno a me è troppo pressante per darmi il tempo di scrivere fiction».
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Niente jeans per le ragazze dei college di Kanpur
Ieri, leggendo l’ottimo blog dell’amica Enrica Garzilli (che ho anche scoperto avere antenati per me importanti, perchè hanno a che fare ocn l’invenzione della pizza margherita), ho letto questo interessante articolo e lo ripropongo nella versione che ho pubblicato per l’Ansa. Tnks to Enrica.
Niente jeans in quattro college dello stato dell’Uttar Pradesh, nel nord dell’India. I rettori del Dayanand Degree College (DDC), Acharya Narendra Dev College (ANDC), Sen Balika College (SBC) e Johari Degree College (JDC), tutti associati all’universita’ di Kanpur, hanno emesso un decreto con il quale si vieta agli studenti, soprattutto alle ragazze, di indossare jeans e altri capi o accessori di abbigliamento occidentali. I rettori hanno giustificato la loro scelta spiegando di aver ricevuto una serie di lamentele da parte delle ragazze di molestie al di fuori dei cancelli dei college. Per evitare cosi’ che potessero subire molestie, i rettori hanno deciso di vietare i capi di abbigliamento occidentali, che, anche se lunghi, segnerebbero troppo le forme delle ragazze. Via jeans e camicette, ma anche minigonne e magliettine attillate. A tutti gli studenti, inoltre, e’ stato vietato di utilizzare i cellulari all’interno del campus, se non per ragioni strettamente necessarie. I rettori hanno anche deciso di incontrarsi a breve per formalizzare un codice di condotta sull’abbigliamento nei diversi istituti. Non tutti gli studenti hanno accettato la decisione. Un gruppo studentesco femminile ha fatto notare alla stampa indiana che se davvero l’intento era quello di proteggere loro dalle molestie sessuali, si poteva pensare ad aumentare la sicurezza o a chiedere l’intervento e l’aiuto della polizia. Si preannunciano manifestazioni di studenti e insegnanti contro il nuovo codice di condotta, che prevede multe per i trasgressori e punizioni che arrivano fino alla sospensione. Lo stato dell’Uttar Pradesh e’ il piu’ popoloso dell’India e quello nel quale c’e’ la piu’ alta percentuale di musulmani. Il portale on line di informazione Islam On line, spiega, nel titolo dell’articolo sulla faccenda di Kanpur, che la decisione dei rettori e’ stata presa ”per proteggere le ragazze”.
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I giovani e le curiosità del nuovo governo
E’ Agatha Sangma, 28 anni, la mascotte del secondo governo di Manmohan Singh. La giovane avvocato proveniente dallo stato nord orientale del Meghalaya, ha riscosso sorrisi e applausi, anche da Sonia Gandhi, quando oggi, nelle mani del presidente indiano Pratibha Patil, ha giurato come ”minister of state”, sottosegretario del governo indiano. Sangma e’ alla sua prima esperienza, ma vanta una famiglia di politici di lungo corso nel piccolissimo stato montuoso nord orientale, al di la’ del Bangladesh. Suo padre Purno Agitok Sangma, presenta al giuramento, fondatore del Nationalist Congress Party, e’ stato parlamentare dal 1977, primo ministro del Meghalaya e presidente della camera bassa del parlamento indiano (Lokh Saba). Un altro giovane astro della politica indiana, Sachin Pilot, 32 anni, ha giurato oggi, un’ora dopo il giuramento di suo suocero, Farooq Abdullah. 37 i ministri che hanno meno di 40 anni, anche se l’eta’ media del governo e’ di 57 anni. Dal piu’ anziano, il ministro degli esteri SM Krishna che ha 77 anni, alla piu’ giovane, il sottosegretario Agatha Sangma, passano 50 anni. Uno solo, il sikh MS Gill, alla cerimonia era vestito con giacca e cravatta, la maggior parte vestiva con abiti tradizionali. Sachin Pilot ha giurato indossando un tipico e colorato turbante rajasthano.
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Ha giurato il nuovo governo di Manmohan Singh
Hanno giurato i ministri che formeranno il nuovo governo di Manmohan Singh, il secondo consecutivo dell’economista sikh. Nelle mani del presidente dell’Unione Indiana Pratibha Patil hanno giurato 59 tra ministri, ministri indipendenti (una sorta di vice ministri) e i sottosegretari (‘ministers of state’), portando a 79 il numero dei componenti del governo. Singh e 19 avevano gia’ giurato la settimana scorsa, quando il primo ministro aveva anche affidato le deleghe piu’ importanti, interni, esteri, finanze e ferrovie. Il primo ministro non ha ancora deciso invece le deleghe per questi nuovi ministri, che sta discutendo in queste ore con Sonia Gandhi, presidente del Partito del Congresso e dell’alleanza (UPA) che governa il paese.
E sara’ una strada in salita quella che aspetta il nuovo governo e Singh, l’unico primo ministro, dopo Nehru, ad essere riconfermato dopo la fine naturale del primo mandato.
La sfida del nuovo esecutivo sara’ da un lato quella di tendere una mano alle classi meno abbienti, non toccate dalla crescita economica del paese ma che anzi hanno sofferto, soprattutto i contadini, di una crisi quasi senza precedenti, e dall’altro la necessita’ di non fermare lo sviluppo del paese che, contestualmente all’uscita del mondo dalla crisi economica globale, potrebbe vedere di nuovo l’economia indiana crescere a ritmi dell’8% annuo.
Singh, fautore gia’ in passato di riforme economiche liberali, deve far fronte alle minori entrate fiscali dello stato e contestualmente trovare una soluzione ai problemi degli ultimi, ancora troppi. Il 90% della popolazione vive e lavora in una economia informale (e il dato e’ in crescita dopo la liberalizzazione del 1991), in cui i diritti dei lavoratori non sono tutelati in alcun modo, dove non esiste il diritto alla pensione, all’assistenza sanitaria, dove viene evasa sistematicamente la legislazione sull’orario di lavoro e sulle condizioni di sicurezza sul posto di lavoro, dove le donne e le caste basse sono escluse a priori dalle progressioni di carriera nei posti di lavoro. Il mondo guarda all’India e Delhi vuole farsi trovare preparata.
Assente eccellente nel governo, Rahul Gandhi, il rampollo della dinastia Gandhi Nehru, uno dei grandi vincitori delle elezioni appena passate. Rahul, per il quale si parlava di un viceministero, ha detto di preferire un ”lavoro alla volta”, scegliendo di impegnarsi nel partito del Congresso, nel quale e’ segretario generale e responsabile dei giovani, piuttosto che accettare un incarico di governo.
Il gabinetto di Manmohan Singh sara’ composto da 34 ministri, 7 viceministri e 38 sottosegretari, tra i quali spicca la giovane Agatha Sangma di 28 anni. Le nomine non hanno mancato di suscitare proteste, per la presenza di parenti eccellenti ma soprattutto per l’assenza ministri di religione musulmana e per quella di esponenti dello stato dell’Uttar Pradesh, il piu’ popoloso d’India. In questo stato, Sonia e Rahul hanno il loro collegio e il Congresso ha avuto un ottimo risultato alle ultime elezioni guadagnando 10 voti. Qui regna incontrastata Kumari Mayawati, la ”regina dei dalit”, che si aspettava un risultato elettorale notevole tanto da diventare primo ministro, e che invece si e’ limitata a dare un appoggio esterno al governo di Manmohan Singh.
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Nominati 6 ministri e decisa prima seduta parlamento
Tra i 19 ministri che hanno giurato ieri, il primo ministro ha annunciato poco fa gli incarichi ad alcuni di loro. Somanahalli Mallaiah Krishna e’ stato nominato ministro degli esteri, l’ex capo della diplomazia Pranab Mukherjee e’ stato nominato ministro delle finanze. La presidente del Trinamool Congress Mamata Banerjee sara’ il nuovo ministro delle ferrovie, incarico molto importante nel gabinetto indiano. Conferme per Palanippan Chidambaram agli interni, Sharad Pawar all’agricoltura e AK Antony alla difesa. Gli altri incarichi dovrebbero essere annunciati nelle prossime ore. E si terra’ dall’1 al 9 giugno la prima sessione del nuovo parlamento indiano, uscito dalle elezioni finite lo scorso 13 maggio e i cui risultati sono stati resi noti il 16. Lo ha annunciato il ministro degli interni uscente Palanippan Chidambaram, il giorno dopo il giuramento del nuovo esecutivo e del primo ministro Manmohan Singh. Il presidente indiano Pratibha Patil parlera’ alle camere in seduta congiunta il 4 giugno, i nuovi membri del parlamento giureranno il 1 e il 2, mentre il presidente della camera sara’ eletto il 3. Le prime discussioni sule mozioni di ringraziamento al discorso del presidente saranno il 5, l’8 e il 9. Entro il 31 luglio si dovra’ discutere del bilancio generale. Il parlamento indiano non si riunisce di continuo, ma a sessioni. La situazione con il DMK, che aveva annunciato l’uscita dal governo e il solo appoggio esterno, dovrebbe rientrare presto.
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Il governo perde pezzi prima di giurare
Il governo indiano non ancora in carica perde gia’ i suoi primi pezzi. Il Dravida Munnetra Kazhagam (DMK) partito che governa in Tamil Nadu nel sud dell’India e che prima delle elezioni aveva garantito il suo appoggio al Congresso, ha annunciato oggi che uscira’ dalla coalizione di governo, pur mantenendo un appoggio esterno all’UPA (United Progressive Alliance) che governa il paese, guidata dal Congresso. Alle elezioni il DMK ha conquistato 18 seggi ed ha chiesto al primo ministro incaricato Manmohan Singh e a Sonia Gandhi, presidente del Congresso e dell’UPA, di avere 7 tra ministri e sottosegretari, con tre ministri importanti e il resto sottosegretari. Questi incarichi sarebebro stati accusati dai figli e nipoti del leader del partito, l’anziano primo ministro del Tamil Nadu Karunanidhi. Il Congresso, invece, ha offerto sei posti, con al massimo tre ministeri minori. Il leader del DMK, ha cosi’ deciso di tirare fuori dla governo i suoi, garantendo pero’ un appoggio esterno. A causa della rinuncia del DMK, e’ saltato oggi l’incontro tra il primo ministro Singh e il presidente Pratibha Patil. Il DMK e’ risultata la terza forza all’interno dell’UPA secondo i risultati delle elezioni resi noti il 16 maggio, dopo il Congresso e il Trinamool Congress, partito del West Bengala. Domani e’ previsto il giuramento del governo indiano guidato, per la seconda volta consecutiva, da Manmohan Singh.
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Sulla democrazia indiana e le elezioni
Da più parti sono stato stimolato ad un commento elettorale. Io sono un cronista, non un politologo, per cui mi sono sottratto. Ma è giusto , credo, da osservatore privilegiato per stare qui da sei anni, che anch’io esprima il mio parere. Di seguito propongo una riflessione della professoressa Elisabetta Basile, docente di economia alla Sapienza, che ho avuto il piacere e l’onore di conoscere e le cui idee condivido pienamente. A seguire l’intervento della Basile, in corsivo un mio contributo. Entrambi sono stati diffusi sulla lista dell’associazione Italindia.
[…] ti scrivo per comunicarti il disagio crescente che provo di fronte ai commenti sui risultati delle elezioni indiane. In particolare, sta crescendo la mia perplessità sull’uso corrente che viene fatto nella stampa e dagli specialisti dell’espressione che afferma che l’India è la democrazia più grande del mondo. Più studio l’India, e più mi pare un paese di una estrema complessità, e forse questa complessità è all’origine dell’interesse che io personalmente provo per essa. Nel tentativo di cogliere questa complessità, gli analisti usano categorie concettuali di uso comune e diffuso, come quella di democrazia. Affermare che l’India è una grande democrazia è vero, ma è anche banale allo stesso tempo. E’ certamente un paese grande, ed è certamente un paese basato su di un sistema politico che poggia su meccanismi elettorali che appaiono ‘democratici’ . Ma ciò basta a definire l’India un grande paese democratico? Più osservo l’India, più mi accorgo come sia difficile applicare il concetto di democrazia, così come io lo interpreto, al caso indiano. L’india mi appare sempre più un grande e complesso paese, ma sempre meno un paese democratico Devo dire che l’esito di queste elezioni (di cui peraltro sono contenta perché una vittoria del BJP mi sarebbe sembrata un segnale molto brutto) mi ha scosso e mi ha fatto molto riflettere. Più conosco l’India, più mi rendo conto che è una società profondamente autoritaria e antidemocratica, sia in relazione alla organizzazione economica sia con riferimento alla struttura politica. Può essere considerato democratico un paese in cui oltre il 90% della popolazione vive e lavora in una economia informale (e il dato è in crescita dopo la liberalizzazione del 1991), in cui i diritti dei lavoratori non sono tutelati in alcun modo? dove non esiste il diritto alla pensione, all’assistenza sanitaria, dove viene evasa sistematicamente la legislazione sull’orario di lavoro e sulle condizioni di sicurezza sul posto di lavoro? dove le donne e le caste basse sono escluse a priori dalle progressioni di carriera nei posti di lavoro? dove l’appartenenza castale ed etnica influenza le remunerazioni e la collocazione professionale? Può essere considerato democratico un paese in cui il dibattito politico viene in larga parte condizionato dall’appartenenza religiosa e castale, dove esistono partiti che sono espressione esclusivamente di tale logica? dove operano meccanismi ideologici forti, come per l’appunto l’ideologia religiosa e castale e i miti ad essa collegati (si veda il BJP e la Mayawati), che condizionano in modo forte le percezioni degli interessi individuali e di gruppo? Un paese in cui la gestione democratica stessa delle elezioni è messa in discussione dalla letteratura e dalla narrativa corrente (si veda ad esempio la descrizione che ne fa Aravind Adiga in The White Tiger), dove oltre il 40% della popolazione è analfabeta e fa fatica a capire per chi vota e come vota? Quando penso a questo contesto, mi interrogo sul significato della parola ‘democrazia? e mi chiedo se abbia ancora senso usarla in India (come peraltro in Italia) e mi chiedo anche come valutare il contrasto fra la grande libertà di stampa di cui l’India gode (ben più ampia di quella italiana) e la gestione effettiva del potere economico e politico. E mi chiedo – io che non sono una politologa, ma sono una economista che si occupa di capitalismo e povertà – con quale aggettivo si possa definire la società indiana in cui esistono alcune elite che dominano sulla base di un insieme di posizioni di potere sostenute da fattori economici, culturali e ideologici, che ricordano da vicino l’egemonia del capitale sul lavoro nell’epoca fascista in Italia, così come è stata descritta da Antonio Gramsci.
Non posso che essere d’accordo con Elisabetta, con la quale ho avuto il piacere di confrontarmi anche de visu. Non sono un analista, ne un politologo, ma porto l’esperienza di chi, da sei anni, vive quotidianamente in India e cerca di raccontarla, cercando nel contempo di fare in modo che venga compresa.
Ho sempre avuto remore nell’utilizzo de ‘la più grossa democrazia del mondo’. Se fate un giro sul mio blog, non trovate mai, o quasi (se non perché citata da altri), l’utilizzo di questa definizione, se non per attaccarla. Ultimamente ho usato l’espressione “la più grossa democrazia del mondo”. Ebbi modo di discuterne con il prof. Aldo Masullo, eminente filosofo, alla presentazione del libro del prof. Domenico Amirante. Anch’egli, reduce da un viaggio in India, mi espresse le sue riserve sulla cosa, a siamo su altri campi.
Ho i miei dubbi anche sulle elezioni. Si, è vero, gli indiani numericamente rappresentano il popolo più numeroso che va a votare liberamente, ma da qui a parlare di democrazia, in senso ideale e filosofico, siamo lontani. Non sto a parlare di sperequazioni sociali, di problemi economici, dei quali tutti voi siete maestri e io un semplice osservatore. Ma è indubbio che in India non si voti per “opinione” ma per “appartenenza”. Non nascondiamoci dietro ad un dito. I Yadav votano i Yadav, gli appartenenti ad un gruppo votano per il loro gruppo (che sia religioso, castale, tribale, etc, poco importa). E poi si vota Gandhi. E, stavolta, c’era una ragione in più. Rahul.
Dico questo perchè la sensazione che ho avuto durante la campagna elettorale era che non ci fosse nessun altro se non i Gandhi. Il BJP si è visto poco, così come gli altri, mentre i tre Gandhi sfuriavano dovunque.
La politica del Congresso, nei cinque anni di governo, ha fallito li dove aveva pescato la sua base elettorale nel 2004, nelle classi più basse. Eppure ha avuto oggi un consenso non indifferente. Come era successo all’indomani degli attentati di Mumbai. Gli indiani sono scesi in piazza in tutto il paese per protestare contro la mancanza di sicurezza e contro il governo che non si era impegnato a fondo. Per giorni le televisioni e i giornali mostravano gente per strada con cartelli e slogan antigovernativi. Eppure, agli inizi di dicembre, il Congresso e quindi il governo, non solo vincono per la quarta volta Delhi, ma strappano il Rajasthan al BJP che, vale dire, non era stato in grado di cavalcare l’ondata antigovernativa soprattutto nella critica al governo per la sua politica di lotta al terrorismo di matrice islamica interno ed esterno. Il BJP nelle elezioni del 2004 come in quelle appena concluse, non ha fatto una campagna elettorale propositiva, ma anti: anti congresso, anti Sonia, per certi versi antimusulmana.
Ultime due considerazioni. La percentuale dei votanti è stata del 58,4% cinque anni fa del 58,07%, quindi uguale. Sono aumentati i votanti, i primo ministro ieri ha detto che dalle loro analisi dei voti è risultato che il Congresso ha avuto i voti dei giovani. Non mi meraviglia, non foss’altro che almeno il partito di Sonia aveva tra i leader più esposti un giovane che, tra l’altro, possiede un carisma, secondo gli indiani, non foss’altro che assomiglia molto a suo padre, speranza dei giovani degli anni 90.
La seconda considerazione è sul fatto che manca, come sempre, soprattutto ora nel voto elettronico, il dato relativo alle schede nulle o bianche. Sulla macchinetta ci sarebbe un pulsante per esprimere questo tipo di voto, ma nessuno lo pigia. Ciò avvalora la mia idea del voto per appartenenza, perchè la gente comunque vota per il proprio candidato, il più delle volte locale o in qualche modo legato alle situazioni locali.
La percentuale dei non votanti non è data da coloro che non sono andati a votare per protesta, ma da una serie di fattori. Tra questi, come mi hanno fatto notare sapientemente pochi giorni fa i prof. Maiello e Amirante, c’è stata una riscrizione delle circoscrizioni elettorali. La difficoltà di raggiungerne alcune, in giorni tra l’altro nei quali il caldo era atroce (ci sono stati morti) ha portato a rinunce. Ma questo è solo un motivo, non tanto banale, credete, come possa sembrare. E poi, permettetemi una ultima considerazione, che va soprattutto contro la mia professione. Di India sui giornali si parla solamente per immagini. Situazioni iconografiche, quasi diapositive. Interessano molto i sadhu, la macchina a 1700 euro, gli elefanti, i poveri, il software, etc. Senza andare a vedere cosa c’è dietro. Ed anche quando gli articoli meriterebbero gli approfondimenti, si ragiona per immagini, come è appunto la definizione “l’esercizio democratico più grande del mondo” o “la più grande democrazia del mondo”. E’ una banalizzazione, lo so. Ma meno male che c’è. Altrimenti, non se ne parlerebbe neanche in queste occasioni.
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Maoisti minacciano di tagliare la mano a coloro che andranno a votare
I maoisti indiani hanno minacciato di tagliare le mani a chiunque voti alle prossime elezioni. Lo riferisce l’agenzia Ians. Gli stessi guerriglieri hanno affisso dei manifesti nello stato nord-orientale indiano del Bihar, nel quale minacciano gli elettori di tagliare loro le mani. Il manifesto e’ stato affisso in particolare nei dintorni della citta’ di Gaya, attaccato nei pressi di scuole, municipi, sui muri e sugli alberi. Oltre ai guerriglieri armati, anche il partito comunista maoista indiano del Bihar, del Jarkhand e dello Chhattisgarh hanno invitato gli elettori a boicottare le elezioni che cominceranno il prossimo 16 aprile. A seguito della minaccia maoista, i governi di questi stati nord occidentali hanno deciso di aumentare la presenza di militari e paramilitari cosi’ da permettere a tutti di esprimere il proprio voto senza sentire la minaccia dei maoisti. I governi hanno annunciato anche l’utilizzo degli elicotteri. Le elezioni in questi stati sono sempre state foriere di scontri e morti. Nel 1999, durante le elezioni nazionali morirono 74 persone a causa di scontri e attentati nel solo Bihar, mentre nello stesso stato, durante le ultime elezioni del 2004 le vittime sono state 20.
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