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La suprema corte conferma: l’omosessualità in India non è reato

La suprema Corte indiana, il tribunale piu’ alto nell’ordine giurisdizionale del paese, ha confermato l’ordinanza dell’alta corte di Delhi che chiedeva la legalizzazione dell’omosessualita’ nel paese. Lo riferisce la televisione indiana IBNLive. Lo scorso due luglio, con una ordinanza che fece discutere, l’alta corte di Delhi aveva chiesto al governo di adoperarsi per legalizzare l’omosessualita’ nel paese, considerato un reato in base ad un artucolo del codice penale risalente al periodo del dominio britannico. L’alta corte motivo’ la sua decisione con il fatto che la legge violava un diritto individuale, chiedendo la legalizzazione di rapporti omosessuali fra consenzienti. A questa decisione, valida per il solo stato di Delhi, si sono appellati gruppi religiosi, soprattutto islamici, contrari alla legalizzazione dell’omosessualita’. La decisione di oggi potrebbe aprire nuovi scenari, dal momento che il giudizio della Suprema Corte ha valore su tutto il paese.

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Per la corte, la legge sull’omosessualità è anticostituzionale

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Con una storica sentenza che fa breccia in una legge coloniale del 1860, l’alta corte di New Delhi ha dichiarato che l’omosessualita’ non e’ piu’ un reato. Ora spetta al governo nazionale e al parlamento riformare i codici per estendere l’efficacia della sentenza dal solo territorio della capitale federale a tutta l’India. Ci sono voluti anni di battaglie sociali, manifestazioni, parate gay pride e anche suicidi per portare a quella che dai media indiani viene vista come una sentenza epocale che ora passa la palla al parlamento, il quale fra problemi e divisioni, e’ chiamato ora a legiferare. La sentenza ha dichiarato anticostituzionale il reato di omosessualita’ perche’ discrimina una parte sociale, confermando la rilevanza penale dei rapporti non consensuali, soprattutto con minorenni. Fino a oggi una legge emanata sotto l’Impero britannico e confluita nella sezione 377 del codice penale indiano, puniva il ”sesso contro natura” fino a dieci anni. In alcuni casi, la punizione poteva anche arrivare all’ergastolo. La legge inoltre equiparava gli omosessuali a coloro che hanno rapporti con animali, e contro queste discriminazioni, il movimento omosessuale indiano aveva da sempre combattuto. Gli attivisti omosessuali nel 2004 avevano anche fatto ricorso al tribunale di Delhi, che respinse la richiesta bollandola come ”accademica”.

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Tutte le petizioni sono state rigettate dalle autorita’ indiane che, almeno finora, hanno sempre considerato i comportamenti omosessuali contrari alla morale. I gruppi per la tutela dei diritti di gay e lesbiche da qualche anno stanno suffragando la loro lotta una nuova importante argomentazione: la lotta all’Aids. In India infatti vi sarebbero milioni di omosessuali a rischio Aids che, per paura del carcere, non denunciando la loro condizione e non hanno percio’ accesso alle cure mediche. Gia’ il ministro della salute – l’omosessualita’ in India e’ ritenuta infatti da molti una malattia – del passato governo, Ramadoss, si era impegnato a lavorare per depenalizzare il reato. Ma Ramadoss non riusci’ nel suo intento:: Palanippan Chidambaran, ministro degli interni alla fine del passato governo e in questo attuale, la settimana scorsa annuncio’ l’intento di voler riunire i suoi colleghi di gabinetto per analizzare il problema e arrivare alla depenalizzazione. Il giorno dopo il ministro della giustizia, pero’, dopo feroci critiche della comunita’ musulmana, freno’ dicendo che l’argomento non era in agenda. In base alla legge indiana, la sentenza di oggi vale solo per il territorio di Delhi e non per tutto il Paese, e dovra’ essere il governo a esprimersi sulla modifica del codice penale. Un mandato non facile: la sentenza e’ stata commentata da Shakeel Ahmed, portavoce del Partito del Congresso di Sonia Gandhi, con un laconico ”e’ una questione tra governo e tribunale”. La sentenza e’ stata salutata con slogan e canti in aula da un centinaio di attivisti dei diritti degli omosessuali, i quali hanno dichiarato la loro felicita’ per la depenalizzazione del loro status. Ma la stessa sentenza e’ stata subito condannata da alcuni leader religiosi indiani, soprattutto musulmani. ”E’ assolutamente sbagliato legalizzare l’omosessualita’, non accetteremo mai una legge del genere”, ha dichiarato alla tv l’ Imam della Jama Masjid di Delhi, la piu’ grande moschea dell’ India, Ahmed Bukhari. Anche il segretario dell’All India Muslim Peronsal Law Board, organismo che riunisce tutte le associazioni musulmane del Paese, il maulana Khalid Rashid Firangi Mahali, s’e’ dichiarato contrario alla sentenza: ”l’omosessulita’ e’ contro la religione e la sharia (la legge islamica, ndr)”. La Chiesa cattolica indiana, attraverso il Dominic Immanuel, pur ribadendo la sua contrarieta’ alle relazioni omosessualita’, e favorevole a rimuovere le discriminazioni contro gli omosessuali, che non rischiano piu’ l’arresto.

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Dietro front del governo sulla depenalizzazione dell’omosessualità

Tutti coloro che credevano che l’India, la “più grande democrazia del mondo” mostrasse segni di giustizia sociale di rispetto dei diritti, dovranno restare delusi. Nonostante gli annunci anche recenti, il governo indiano non intende per ora depenalizzare l’omosessualita’ in India. Lo ha detto all’agenzia PTI il ministro della giustizia indiano Veerappa Molly. Era stato il suo collega degli interni, Palanippam Chidambaran ad annunciare, nei giorni scorsi, un incontro con alcuni suoi colleghi, per discutere della depenalizzazione di parte della sezione 377, che prevede pene per il ”sesso contro natura”, inglobando gli omosessuali con coloro, ad esempio, che hanno rapporti con animali. Il dietro front del ministro della giustizia arriva dopo che oggi il Maulana Abdul Khalik Madrasi, vice cancelliere del Darul Uloom Deoband, una importante scuola islamica di Muzaffarnagar, nello stato settentrionale dell’Uttar Pradesh, ha detto che ”l’omosessualita’ e’ vietata dalla Sharia (la legge islamica, ndr) e proibita nell’Islam”, sbarrando di fatto la porta alla depenalizzazione. Molly aveva detto che la decisione di depenalizzare il reato sarebbe stata presa solo dopo aver ascoltato tutte le forze sociali, compresi i responsabili religiosi. Il veto del maulana Madrasi, e’ stato ampliato dal Maulana Salim Kasmi, vice presidente dell’All-India Muslim Personal Law Board (AIMPLB), la piu’ importante organizzazione islamica indiana. Per Kasmi, ”le attivita’ gay sono un crimine” e l’omosessualita’ non deve essere depenalizzata dall’ambito della sezione 377. In base alla legge indiana tuttora in vigore (che risale al 1861, quando l’India era ancora colonia britannica) chi pratica ”sesso contro natura” e’ punibile con il carcere fino a 10 anni, ergastolo in casi piu’ gravi. Gruppi di attivisti umanitari e organizzazioni non governative da anni lottano per l’abrogazione di questa legge. Ma tutte le petizioni sono state rigettate dalle autorita’ indiane che, almeno finora, hanno sempre considerato i comportamenti omosessuali contrari alla morale indiana. I gruppi che cercano di tutelare le ragioni dei gay portano una nuova importante argomentazione a supporto della loro tesi: la lotta all’Aids. In India infatti ci sarebbero milioni di omosessuali a rischio Aids che, per paura del carcere, non denunciando la loro condizione e quindi non hanno accesso alle necessarie cure mediche.

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L’India pensa a depenalizzare l’omosessualità

Il Governo indiano potrebbe rivedere la sua posizione e dichiarare non penalmente perseguibile lomosessualita’. Lo scrive il Times of India. Fino ad ora l’esecutivo di New Delhi era stato contrario alla modifica della sezione 377 del codice penale indiano che considera l’omosessualita’ un reato, ma adesso si sta considerando, anche a pressioni interne e internazionali, la possibilita’ di abrogare quella legge. L’attuale Ministro dell’interno, P. Chidambaram, ha espresso parere favorevole in tal senso. Per questo Chidambaram ha indetto una riunione con il Ministro della Sanita’, Ghulam Nabi Azad, con il Ministro della Giustizia, V. Moily, e con i Ministri dell’Interno di tutti gli Stati dell’Unione per discutere l’argomento. Una decisione definitiva sull’abrogazione del reato di omosessualita’, infatti, potrebbe essere presa solo con il consenso di tutti. In base alla legge indiana tuttora in vigore (che risale al 1861, quando l’India era ancora colonia britannica) chi pratica ”sesso contro natura” (avvicinando gli omosessuali a coloro che hanno rapporti con animali) e’ punibile con il carcere fino a 10 anni. Ergastolo in casi piu’ gravi. Gruppi di attivisti umanitari e organizzazioni non governative da anni lottano per l’abrogazione di questa legge. Ma tutte le petizioni sono state rigettate dalle autorita’ indiane che, almeno finora, hanno sempre considerato i comportamenti omosessuali contrari alla morale indiana. I gruppi che cercano di tutelare le ragioni dei gay portano una nuova importante argomentazione a supporto della loro tesi: la lotta all’Aids. In India infatti ci sarebbero milioni di omosessuali a rischio Aids che, per paura del carcere, non denunciando la loro condizione e quindi non hanno accesso alle necessarie cure mediche.

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Niente jeans per le ragazze dei college di Kanpur

Ieri, leggendo l’ottimo blog dell’amica Enrica Garzilli (che ho anche scoperto avere antenati per me importanti, perchè hanno a che fare ocn l’invenzione della pizza margherita), ho letto questo interessante articolo e lo ripropongo nella versione che ho pubblicato per l’Ansa. Tnks to Enrica.

Niente jeans in quattro college dello stato dell’Uttar Pradesh, nel nord dell’India. I rettori del Dayanand Degree College (DDC), Acharya Narendra Dev College (ANDC), Sen Balika College (SBC) e Johari Degree College (JDC), tutti associati all’universita’ di Kanpur, hanno emesso un decreto con il quale si vieta agli studenti, soprattutto alle ragazze, di indossare jeans e altri capi o accessori di abbigliamento occidentali. I rettori hanno giustificato la loro scelta spiegando di aver ricevuto una serie di lamentele da parte delle ragazze di molestie al di fuori dei cancelli dei college. Per evitare cosi’ che potessero subire molestie, i rettori hanno deciso di vietare i capi di abbigliamento occidentali, che, anche se lunghi, segnerebbero troppo le forme delle ragazze. Via jeans e camicette, ma anche minigonne e magliettine attillate. A tutti gli studenti, inoltre, e’ stato vietato di utilizzare i cellulari all’interno del campus, se non per ragioni strettamente necessarie. I rettori hanno anche deciso di incontrarsi a breve per formalizzare un codice di condotta sull’abbigliamento nei diversi istituti. Non tutti gli studenti hanno accettato la decisione. Un gruppo studentesco femminile ha fatto notare alla stampa indiana che se davvero l’intento era quello di proteggere loro dalle molestie sessuali, si poteva pensare ad aumentare la sicurezza o a chiedere l’intervento e l’aiuto della polizia. Si preannunciano manifestazioni di studenti e insegnanti contro il nuovo codice di condotta, che prevede multe per i trasgressori e punizioni che arrivano fino alla sospensione. Lo stato dell’Uttar Pradesh e’ il piu’ popoloso dell’India e quello nel quale c’e’ la piu’ alta percentuale di musulmani. Il portale on line di informazione Islam On line, spiega, nel titolo dell’articolo sulla faccenda di Kanpur, che la decisione dei rettori e’ stata presa ”per proteggere le ragazze”.

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Giovane monaco tenta il suicidio bruciandosi in Tibet

Tensione alta in Tibet dopo il tentativo di suicidio con il fuoco di un giovane monaco tibetano ad Aba (Ngaba in tibetano) in una zona a popolazione tibetana della provincia cinese del Sichuan, un gesto confermato oggi anche dall’agenzia di stampa ufficiale di Pechino Nuova Cina. Secondo testimoni citati dalla Campagna Internazionale per il Tibet (ICT), un gruppo filotibetano basato negli USA, agenti di polizia avrebbero ripetutamente sparato contro il giovane monaco prima di spegnere le fiamme che lo avvolgevano. Confermando la notizia, l ‘agenzia governativa Nuova Cina ha scritto che il giovane e’ ricoverato in ospedale con ustioni “al collo e alla testa”, ma non fa menzione di ferite da arma da fuoco. Il dramma avviene mentre in tutte le zone a popolazione tibetana della Cina è in corso una silenziosa protesta che consiste nel non partecipare ai festeggiamenti per Losar, il capodanno tibetano, che in genere durano 15 giorni durante i quali si svolgono banchetti, canti e balli tradizionali. La protesta è stata indetta in segno di “rispetto” per le persone che hanno perso la vita durante le manifestazioni anticinesi che si sono svolte nel marzo dell’anno scorso in molte zone della Cina abitate da tibetani. Secondo Pechino i morti sono stati solo venti, tutti civili uccisi dai rivoltosi tibetani, mentre i tibetani in esilio sostengono che le vittime sono state circa duecento e di mille persone arrestate in quel periodo – tra marzo e maggio dell’ anno scorso – non si hanno notizie. Inoltre è vicina la delicata scadenza del 10 marzo, giorno nel quale cade l’ anniversario della rivolta del 1959 che si concluse con la fuga in India del Dalai Lama, il leader spirituale tibetano che da allora è vissuto in esilio. Secondo la ricostruzione di ICT, la protesta del monaco risale a mercoledì ed è stata innescata dal divieto posto dalle autorità alla celebrazione delle preghiere di Monlam, una festa religiosa collegata a quella di Losar. Poche ore dopo la notifica del divieto Tapey, il cui corpo era già cosparso di kerosene, è stato visto nel mercato vicino al monastero e, prima che gli agenti presenti potessero intervenire, si è dato fuoco agitando una bandiera tibetana fatta a mano con al centro un ritratto del Dalai Lama. I poliziotti lo hanno circondato e si sono uditi dei colpi di pistola. In seguito le fiamme sono state spente ed il giovane è stato portato via, in un apparente stato di incoscienza. Secondo l’ emittente di tibetani in esilio Voice of Tibet, manifestazioni anticinesi e pro-Dalai Lama alle quali avrebbero preso parte centinaia di persone si sono svolte in questa settimana a Guinan (Mangra in tibetano) e ad Hainan (Tsolho in tibetano), nella provincia del Qinghai. Colloqui tra esponenti cinesi ed inviati del Dalai Lama si sono tenuti in ottobre senza che sia stato raggiunto un accordo. Pechino accusa il leader tibetano di perseguire la secessione del Tibet dalla Cina, mentre il Dalai Lama afferma di voler per il territorio quella che chiama una “vera” autonomia.

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La Cina s’incazza con i comuni italiani che hanno accolto il Dalai e la Farnesina se ne lava le mani

Il conferimento al Dalai Lama, il leader tibetano in esilio, della cittadinanza di Roma “offende il popolo cinese” e costituisce un’ “interferenza” negli affari interni di Pechino. Lo ha detto oggi la portavoce del ministero degli Esteri cinese, Jiang Yu, in una conferenza stampa a Pechino. Jiang ha detto che l’ Italia deve prendere “immediate misure” per rimediare al danno apportato alle relazioni tra i due Paesi, ma non ha specificato quali. “Le parole e le azioni del Dalai Lama – ha detto la portavoce – dimostrano che non è solo una figura religiosa, ma un uomo politico impegnato in attività secessioniste con la scusa della religione”. I Paesi stranieri, ha aggiunto, dovrebbero “capire e sostenere” la posizione della Cina sul Tibet, che è “completamente parte della Cina”. “Il problema del Dalai Lama non è un problema di diritti umani, ma un problema attinente alla sovranità e alla integrità territoriale della Cina”, ha concluso Jiang. Il Dalai Lama, che nel 1989 ha ricevuto il Premio Nobel per la pace, vive in esilio dal 1959 e chiede per il Tibet quella che chiama una “vera autonomia”. Dopo Roma, oggi sarà la città di Venezia a conferire al leader tibetano la cittadinanza onoraria. Ribadisce il ”fermo sostegno” alla politica di una sola Cina, ma ricorda anche l’autonomia dei comuni italiani. La Farnesina, in una nota, risponde cosi’ alle dichiarazioni del portavoce del Ministero degli Esteri cinese, Jiang Yu, secondo il quale la cittadinanza onoraria conferita dal comune di Roma al Dalai Lama ”offende il popolo cinese”. La Farnesina, in una nota, sottolinea come ”sia stato gia’ chiarito in altre numerose occasioni all’Ambasciatore cinese in Italia che i comuni italiani sono autonomi e assumono le loro decisioni in assoluta indipendenza dal Governo”. E ricorda ”il fermo sostegno del Governo italiano alla politica di una sola Cina, politica che il Presidente Berlusconi e il Ministro degli Esteri Frattini hanno ribadito ai loro omologhi anche in occasione degli ultimi incontri avuti”.

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Le vedove vendute in India dai suoceri

Vedove vendute o utilizzate come schiave per fare i lavori piu’ pesanti o umili. E’ la tradizione indiana della ”Ruka” tuttora esistente nella comunita’ di Handi Koracha, nell’India meridionale, che vive al confine tra gli stati del Karnataka e dell’Andhra Pradesh, secondo la quale, al momento del matrimonio i genitori dello sposo regalano alla sposa un sacchetto con delle monete. Questa e’ considerata una promessa solenne da parte di lei che sara’ al servizio del marito e dei suoceri per tutta la vita. In caso di morte del marito i suoceri sono quindi legittimati a venderla o cederla a terzi, se non ne hanno piu’ bisogno o se ritengono che mantenerla sia troppo dispendioso. Le vedove vendute vengono poi utilizzate dai loro nuovi padroni per pulire i maiali o per altri lavori simili. ‘’E’ ancora una pratica molto diffusa – ha raccontato al Times of India Sunkappa, un vecchio membro della comunita’ – ancora oggi si fa una vera e propria compravendita di vedove’’. Il Governo indiano, al corrente di questa situazione, ha in piu’ occasioni promesso di intervenire ma finora nulla sembra essersi mosso. Il Ministro per il welfare indiano, D. Sudhakar, ha detto di essere rimasto scioccato nell’apprendere dell’esistenza di queste pratiche e di voler provvedere per fornire a queste donne sventurate case ed assistenza, oltre a promuovere campagne di sensibilizzazione e di istruzione nell’ambito della comunita’ Handi Koracha. Ma sono in molti a denunciare il fatto che, ad li la’ delle parole e delle promesse, il problema non e’ mai stato seriamente affrontato. Numerose organizzazioni non governative stanno da tempo occupandosi del fenomeno. Wimochana, una ONG di Bangalore, ha condotto lo scorso anno uno studio sulla diffusione della ‘’Ruka’’. ‘’Non e’ stato facile ottenere dei risultati significativi – spiega Madhu Bhushan, membro della ONG Wimochana – perche’ la gente e’ ancora reticente a parlarne. C’e’ una sorta di omerta’. Comunque stiamo lavorando per cercare di creare consapevolezza del problema fra la gente, anche se e’ il governo che dovrebbe fare dei passi in avanti per educare questa comunita’ e sradicare queste assurde pratiche, frutto soprattutto dell’ignoranza’’.

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Cominciata la riunione speciale sul futuro del Tibet

Buddisti, tibetani e sostenitori della causa del Tibet da tutto il mondo, si sono riuniti oggi a Dharamsala, nel nord dell’India dove ha sede il governo tibetano in esilio, per il primo dei sei giorni dello speciale incontro voluto dal Dalai Lama per fare il punto della situazione sulla questione tibetana e verificare lo stato di attuazione della politica fino ad ora intrapresa. Da pochi giorni, il 5 novembre, e’ terminato il settimo round di colloqui tra due inviati del Dalai Lama e il governo cinese a Pechino. Un nulla di fatto, nel quale da un lato i tibetani hanno ribadito la loro richiesta di una ”genuina autonomia” sotto l’egida cinese, dall’altro i cinesi respingono le richieste tibetane perche’, dicono, nascondono una volonta’ secessionista e indipendentista. Un discorso tra sordi che, nonostante le pressioni internazionali soprattutto alla vigilia delle Olimpiadi dello scorso agosto, non ha portato a nessun cambiamento. Tanto da insinuare il dubbio tra i tibetani che la politica della ”via di mezzo” adottata dal Dalai Lama nei confronti della Cina, il suo approccio soft alla causa tibetana, non sia valido. Da qui la necessita’ di un incontro aperto, dal quale uscira’ il pensiero dei tibetani che si potra’ concretizzare in una conferma del mandato al Dalai sulla sua linea politica, o il radicale cambiamento della stessa verso una svolta piu’ radicale e intransigente. Il Dalai Lama, forse per non condizionare il dibattito, non sara’ presente alla sei giorni. Da tempo, il leader spirituale e politico dei tibetani ha anche affermato di essere pronto a fare un passo indietro, esprimendo la volonta’ di tornare a fare il monaco. Una posizione ribadita soprattutto all’indomani dei moti di marzo scorso a Lhasa, quando la polizia cinese e’ intervenuta duramente contro i manifestanti pro Tibet, arrestando e uccidendo diversi monaci e civili. Proprio la ferma reazione cinese e lo stallo nelle trattative per l’autonomia del Tibet da Pechino, ha spinto i giovani tibetani, soprattutto quelli del Tibetan Youth Congress, a criticare in piu’ di una occasione l’atteggiamento attendista del 73nne premio Nobel per la pace. Questa loro posizione, che e’ stata appoggiata da piu’ parti all’interno della diaspora tibetana, e’ stata la spinta che ha mosso il Dalai Lama a convocare questo incontro speciale, come quello che nel 1993 diede slancio alla ”via di mezzo”. Secondo molti osservatori, il Dalai Lama cerca anche di pesare il reale consenso internazionale sulla causa tibetana. Da anni il leader tibetano gira il mondo ottenendo da tutti simpatia e consenso. Molti leader politici lo appoggiano apertamente, tanti invece si sono rifiutati di incontrarlo per non urtare la suscettibilita’ di Pechino. Durante i moti di Lhasa e alla vigilia delle Olimpiadi, fu unanime la critica al governo cinese per quanto successe in Tibet e unanime fu anche la richiesta di rispettare i tibetani e di concedere l’autonomia che, come scritto nel memorandum per l’autonomia presentato dagli inviati del Dalai Lama al governo di Pechino, chiede alla Cina di rendere il Tibet autonomo sotto il governo cinese per permettere la sopravvivenza di lingua, cultura, tradizioni e religione di quel popolo. Nonostante le pressioni internazionali, la Cina non ha mai cambiato la sua posizione, accusando anzi il Dalai di giocare sporco e di volere in realta’ l’indipendenza da Pechino.

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La Cina vuole organizzare nuovi incontri con i tibetani

La Cina organizzerà “nel prossimo futuro” un nuovo round di discussioni con i “rappresentanti privati del Dalai Lama, su richiesta dello stesso Dalai Lama”. Con questa breve dispaccio dell’ agenzia Nuova Cina, Pechino ha risposto alle recenti dichiarazioni del leader tibetano, che ha affermato che la sua fiducia “nell’ attuale governo cinese si sta affievolendo”. Nuova Cina aggiunge che il “terzo incontro” con i rappresentanti del leader tibetano, che nel 1989 ha ricevuto il Premio Nobel per la pace, avrà luogo “nonostante gli incidenti di Lhasa in marzo e le gravi azioni di disturbo e sabotaggio dei Giochi Olimpici di Pechino da parte di un pugno di secessionisti del ‘Tibet Indipendente'”. Il 10 marzo, anniversario della rivolta tibetana del 1959, che si concluse con la fuga del Dalai Lama in India, sono iniziate nella capitale del Tibet, Lhasa, una serie di manifestazioni anticinesi che si sono protratte fino alla fine di maggio e si sono svolte sia nella Regione Autonoma del Tibet che nelle altre zone della Cina a popolazione tibetana. Secondo le autorità cinesi ci sono state in tutto 22 vittime, in grande maggioranza civili uccisi dai manifestanti tibetani a Lhasa nelle violenze contro gli immigrati cinesi che si sono verificate il 14 marzo. Il governo tibetano in esilio, che ha la sua sede a Dharamsala in India, afferma che sono almeno duecento. La Cina ha affermato che per le proteste sono state inflitte in tutto 41 condanne a pene detentive e che 1.157 persone fermate sono state rilasciate senza essere sottoposte a processo. I tibetani in esilio sostengono che sono state arrestate “migliaia” di persone, di molte delle quali si ignora la sorte. Una serie di incontri tra i rappresentanti del Dalai Lama e del governo cinese si sono tenuti dal 2002 al 2007, senza produrre risultati concreti. Altri due round si sono tenuti in maggio e luglio. Il governo tibetano in esilio ha organizzato per i giorni dal 17 al 22 novembre un incontro tra le diverse istituzioni della comunità tibetana. “Abbiamo bisogno di capire, di analizzare e di pensare insieme a soluzioni di lungo termine basate sulla situazione attuale reale”, ha spiegato il Dalai Lama, che ha voluto precisare di non aver rinunciato alla cosidetta “Via di Mezzo”, vale a dire la ricerca di una soluzione pacifica della controversia con la Cina, mantenendo il Tibet come una provincia cinese con una “vera” autonomia. Ad innescare le dichiarazioni del Dalai Lama sarebbero state, secondo osservatori che simpatizzano con la causa tibetana, le affermazioni di dirigenti cinesi secondo le quali i colloqui riguarderebbero solo le condizioni alle quali il leader tibetano potrebbe rientrare in Tibet.”… Questa strada (la Via di Mezzo) non ha finora avuto alcun effetto sul nostro vero obiettivo – ha spiegato il Dalai Lama – che è quello di migliorare la vita dei tibetani all’ interno del Tibet…Il futuro del Tibet deve essere deciso dal popolo del Tibet e non da me come individuo…”.

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