Indian Summer (Estate Indiana), il progetto per l’attesissimo film di Hollywood basato sulla presunta storia d’amore tra Edwina Mountbatten, moglie dell’ultimo vicere’ inglese in India e Jawaharlal Nehru, il primo premier indiano, e’ stato cancellato. La ragione, stando a quanto ha fatto sapere il regista, starebbe nel mancato accordo tra gli studi e il governo indiano. Lo riporta l’agenzia di stampa indiana Press Trust of India. ”Il governo indiano – ha spiegato il regista Joe Wright – voleva che ci occupassimo meno della storia d’amore, al contrario gli studios volevano incentrare il film soprattutto su questa”. Il film, che avrebbe avuto come protagonisti Hugh Grant e Kate Blanchett nei ruoli di Lord e Edwina Mountbatten, ha avuto problemi sin dall’inizio. Il governo indiano infatti aveva chiesto di poter visionare la sceneggiatura riservandosi di dare eventualmente semaforo verde al progetto solo in un secondo momento. Basato sul romanzo di Alex von Tunzelmann intitolato ”Estate Indiana: la storia segreta della fine di un impero”, il film avrebbe dovuto ripercorrere i piu’ importanti eventi della storia dell’India al tempo della conquista dell’indipendenza, focalizzando l’attenzione sulla caduta dell’ultimo vicere’, Lord Mountbatten nel 1947 e sull’ascesa al potere di Nehru. Ma il fulcro del film, nelle intenzioni della produzione, avrebbe dovuto essere proprio la passione tra la moglie del vicere’ e Nehru. Le riprese del film, destinato ad uscire nelle sale nel 2011, avrebbero dovuto cominciare il prossimo anno. Della storia d’amore tra Nehru ed Edwina Mountbatten si e’ occupata anche la figlia di quest’ultima, Pamela, nel suo romanzo ”l’India ricordata”.
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Il governo indiano blocca film su liason tra Nehru e la moglie dell’ultimo vicere’ inglese
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Celebrata dai cinesi la giornata di liberazione dal Dalai Lama
La Cina ha celebrato ieri per la prima volta il Giorno della Liberazione dalla Schiavitù nell’anniversario dell’ istituzione del primo governo filo-cinese nel Tibet. Il territorio fu definitivamente annesso alla Repubblica Popolare Cinese il 28 marzo del 1959, dopo la sconfitta della rivolta iniziata il 10 marzo, che si concluse con la fuga in India del Dalai Lama. In una cerimonia sulla piazza antistante il Potala, il palazzo d’inverno dei Dalai Lama a Lhasa, il governo ha lanciato il suo messaggio, secondo il quale l’occupazione del Tibet da parte dell’ esercito cinese ha messo fine ad un oppressivo regime feudale. A poco più di un anno dall’inizio della rivolta dell’anno scorso, iniziata a Lhasa e poi estesasi ad altre zone a popolazione tibetana della Cina, gli oratori hanno parlato davanti ad una folla di migliaia di tibetani vestiti nei loro costumi tradizionali. La cerimonia si è svolta mentre la maggior parte delle aree a popolazione tibetana sono guardate a vista da migliaia di uomini della polizia armata del popolo, che perquisiscono tutti coloro che entrano ed escono dalle zone “pericolose” e impediscono l’accesso a tutti gli stranieri. Dall’inizio del “lockdown” del Tibet, nella prima settimana di marzo, almeno 200 persone sono state arrestate dopo manifestazioni di protesta. Zhang Qingli, il segretario del partito comunista locale, ha affermato tra l’altro che “qualsiasi complotto per rendere il Tibet indipendente, per separarlo dalla Cina socialista, è destinato a fallire”. La cerimonia, che è stata trasmessa in diretta dalla tv di Stato, ha segnato il culmine di una lunga campagna di propaganda rivolta in primo luogo contro la “cricca” del Dalai Lama, il leader tibetano che chiede per il territorio quella che chiama una “vera” autonomia ma che secondo il governo cinese punta in realtà alla creazione di un Paese indipendente. Visitando ieri una mostra sul Tibet a Pechino, il presidente cinese Hu Jintao ha detto che l’attuale “buona situazione” del territorio “é stata conquistata a duro prezzo e deve essere fortemente apprezzata”, riferisce l’agenzia Nuova Cina. In una conferenza stampa a Dharamsala in India, dove risiede il Dalai Lama, la rappresentante del governo tibetano in esilio Kesang Y.Takla ha sostenuto che “i tibetani considerano questa celebrazione offensiva e provocatoria” e che la “massiccia propaganda” del governo cinese è volta a “nascondere la repressione in atto” nel territorio. Takla ha aggiunto che prima del 1959 i detenuti nelle prigioni del Tibet erano “poco più di un centinaio”. “Dopo la cosidetta ‘liberazione’ e l’emancipazione dei ‘servi’ prigioni sono sorte in ogni parte del Tibet. Nella sola Lhasa ci sono cinque prigioni principali con una popolazione di detenuti tra i tremila e cinquecento e i quattromila”. I tibetani in esilio hanno organizzato manifestazioni di protesta anticinesi a Londra, Parigi, Bruxelles, San Francisco, New York, Toronto, Montreal, Taipei, New Delhi e Dharamsala.
fonte: ANSA
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Un anniversario di silenzio per il Tibet
Un anniversario all’insegna della tristezza, della delusione, della disperazione. E’ questo il sentimento che aleggia a Dharamsala, la cittadina nel nord dell’India sede da mezzo secolo del governo tibetano in esilio. Qui oggi il leader spirituale e temporale dei buddisti tibetani, il Dalai Lama, terrà il suo discorso di commemorazione in occasione della ricorrenza dell’invasione tibetana del 1959. Qui si sono riuniti attivisti e monaci da tutto il mondo, Italia compresa. Da qui partirà una marcia silenziosa che durerà tutta la notte, ricordando gli oltre un milione di morti a causa dell’invasione e della repressione. In ballo c’è l’esistenza stessa del popolo tibetano, le sue millenarie tradizioni, culture, la lingua. Il Dalai Lama ha presieduto ieri pomeriggio nel più grande tempio tibetano di Dharamsala, il Tsuglag-Khang, una cerimonia religiosa alla quale hanno partecipato migliaia di persone. Manifestazioni sono previste nel nord dell’India, ma anche in Nepal, Bhutan e in altre parti del pianeta per protestare contro l’invasione cinese del Tibet. A Delhi la polizia ha dichiarato off limits la zona dell’ambasciata cinese. A Kathmandu il governo nepalese ha vietato le manifestazioni anticinesi. L’esercito cinese ha aumentato i controlli, isolando totalmente il Tibet. dove le proteste vengono soffocate dalla polizia al loro nascere, come in altre èparti della Cina. Nella provincia del Qinghai, più di cento monaci, dei circa 300 religiosi che di solito vivono nel monastero di Lutsang (An Tuo in cinese), sono stati arrestati dopo una manifestazione per le festivita’ del Capodanno tibetano (Losar), che si e’ celebrato il 25 febbraio. Anche due giornalisti italiani, il corrispondente dell’Ansa da Pechino e l’inviato di Sky Tg 24, che si trovavano nei pressi del monastero a raccogliere informazioni circa gli arresti,sono stati detenuti per tre ore dalla polizia. Sempre nel Qinghai una bomba e’ esplosa oggi senza fare vittime in un commissariato. La Cina non vuole sapere ragioni e sta facendo pressioni sul mondo intero per affermare il suo controllo sul Tibet. Parlando ai tremila delegati dell’Assemblea nazionale del popolo (il Parlamento di Pechino), il presidente cinese Hu Jintao ha detto che la Cina deve creare ‘”una Grande Muraglia di stabilità” intorno al Tibet per bloccare il “secessionismo”. Ma a queste parole, il Dalai Lama opporrà oggi la sua ferma richiesta per una genuina autonomia del Tibet. La stessa richiesta che il leader tibetano avanza da decenni. ‘’Questi 50 anni – recita un passaggio del discorso del premio Nobel, del quale alcuni stralci sono stati diffusi dagli uffici del governo tibetano in esilio – hanno portato in sofferenza e distruzione il popolo e il territorio del Tibet. Ancora oggi i tibetani vivono in costante paura. Ma noi vogliamo il rispetto delle nostre tradizioni, vogliamo essere autonomi’’. Il leader tibetano parlerà di coesistenza e amicizia con i cinesi, ma di rispetto delle identità ottenibile solo con l’autonomia. Una richiesta che però non prescinde dalla “via di mezzo”, dalla ricerca dell’autonomia ottenuta attraverso la non violenza, in contrapposizione ai giovani dei movimenti tibetani che chiedevano una rivolta incisiva. Il discorso di oggi cade anche ad un anno dall’inizio dei moti di Lhasa dell’anno scorso, in concomitanza con il passaggio per il Tibet della fiaccola Olimpica, durante il quale ci furono scontri e morti tra esercito cinese e tibetani. In quella occasione Pechino attaccò il Dalai Lama e la “sua cricca”. Un anno fa le proteste sono partite a Lhasa, la capitale del Tibet, e sono sfociate in violenze, secondo fonti ufficiali di Pechino, contro gli immigrati cinesi 22 dei quali sarebbero stati uccisi. Le manifestazioni sono poi proseguite fino a maggio. Secondo il governo tibetano in esilio le vittime sono state almeno duecento. La International Campaign for Tibet (Itc), un gruppo basato a Washington, sostiene in un rapporto che dallo scorso marzo 1200 tibetani sono “scomparsi”. Il settantatreenne monaco tibetano, premio Nobel per la Pace, è stato anche per questo messo in discussione da diversi movimenti tibetani, ma negli stati generali tibetani convocati lo scorso novembre, ha avuto il pieno appoggio alla sua “via di mezzo”. Alla quale, oggi, dovrà dare nuovo vigore per sperare di non dover commemorare più l’invasione cinese.
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Cominciata la riunione speciale sul futuro del Tibet
Buddisti, tibetani e sostenitori della causa del Tibet da tutto il mondo, si sono riuniti oggi a Dharamsala, nel nord dell’India dove ha sede il governo tibetano in esilio, per il primo dei sei giorni dello speciale incontro voluto dal Dalai Lama per fare il punto della situazione sulla questione tibetana e verificare lo stato di attuazione della politica fino ad ora intrapresa. Da pochi giorni, il 5 novembre, e’ terminato il settimo round di colloqui tra due inviati del Dalai Lama e il governo cinese a Pechino. Un nulla di fatto, nel quale da un lato i tibetani hanno ribadito la loro richiesta di una ”genuina autonomia” sotto l’egida cinese, dall’altro i cinesi respingono le richieste tibetane perche’, dicono, nascondono una volonta’ secessionista e indipendentista. Un discorso tra sordi che, nonostante le pressioni internazionali soprattutto alla vigilia delle Olimpiadi dello scorso agosto, non ha portato a nessun cambiamento. Tanto da insinuare il dubbio tra i tibetani che la politica della ”via di mezzo” adottata dal Dalai Lama nei confronti della Cina, il suo approccio soft alla causa tibetana, non sia valido. Da qui la necessita’ di un incontro aperto, dal quale uscira’ il pensiero dei tibetani che si potra’ concretizzare in una conferma del mandato al Dalai sulla sua linea politica, o il radicale cambiamento della stessa verso una svolta piu’ radicale e intransigente. Il Dalai Lama, forse per non condizionare il dibattito, non sara’ presente alla sei giorni. Da tempo, il leader spirituale e politico dei tibetani ha anche affermato di essere pronto a fare un passo indietro, esprimendo la volonta’ di tornare a fare il monaco. Una posizione ribadita soprattutto all’indomani dei moti di marzo scorso a Lhasa, quando la polizia cinese e’ intervenuta duramente contro i manifestanti pro Tibet, arrestando e uccidendo diversi monaci e civili. Proprio la ferma reazione cinese e lo stallo nelle trattative per l’autonomia del Tibet da Pechino, ha spinto i giovani tibetani, soprattutto quelli del Tibetan Youth Congress, a criticare in piu’ di una occasione l’atteggiamento attendista del 73nne premio Nobel per la pace. Questa loro posizione, che e’ stata appoggiata da piu’ parti all’interno della diaspora tibetana, e’ stata la spinta che ha mosso il Dalai Lama a convocare questo incontro speciale, come quello che nel 1993 diede slancio alla ”via di mezzo”. Secondo molti osservatori, il Dalai Lama cerca anche di pesare il reale consenso internazionale sulla causa tibetana. Da anni il leader tibetano gira il mondo ottenendo da tutti simpatia e consenso. Molti leader politici lo appoggiano apertamente, tanti invece si sono rifiutati di incontrarlo per non urtare la suscettibilita’ di Pechino. Durante i moti di Lhasa e alla vigilia delle Olimpiadi, fu unanime la critica al governo cinese per quanto successe in Tibet e unanime fu anche la richiesta di rispettare i tibetani e di concedere l’autonomia che, come scritto nel memorandum per l’autonomia presentato dagli inviati del Dalai Lama al governo di Pechino, chiede alla Cina di rendere il Tibet autonomo sotto il governo cinese per permettere la sopravvivenza di lingua, cultura, tradizioni e religione di quel popolo. Nonostante le pressioni internazionali, la Cina non ha mai cambiato la sua posizione, accusando anzi il Dalai di giocare sporco e di volere in realta’ l’indipendenza da Pechino.
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