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Attentato a Pune, muore italiana

C’e anche Nadia Macerini, un’italiana di 31 anni amante dei viaggi e della vita ‘alternativa’, fra i nove morti causati dall’attentato terroristico che ieri ha letteralmente distrutto il bar-ristorante ‘German Bakery’ di Pune, capitale culturale dello Stato indiano di Maharashtra. La conferma della sua identità è stata fornita oggi dal commissariato di polizia locale, dopo che per ore il cadavere era rimasto senza nome nell’obitorio dell’Ospedale generale Sassoon, in attesa di un riconoscimento ufficiale. Da molti anni all’estero, la Macerini aveva scelto da qualche tempo l’India come patria d’adozione, al termine di un periodo trascorso negli Usa. A Pune aveva approfondito yoga e meditazione, frequentando l’Osho Ashram, un centro fondato dal guru Bhagwan Shree Rajneesh, che si trova a poche decine di metri dal locale dove è avvenuta l’esplosione. Su Facebook, il social network che frequentava assiduamente, Nadia ripeteva spesso il suo amore per l’India e per Pune, città che ad un certo momento aveva sintetizzato con la significativa frase: “Casa, dolce casa”. E’ stata la responsabile dell’Ashram, Sadna Amrit, a dare per prima all’ANSA la notizia della sua presenza fra le vittime. “Nadia veniva qui per le sue meditazioni – ha raccontato la donna – ma non viveva con noi”. Affranti e rinchiusi in un comprensibile riserbo i parenti a Levane di Bucine, in provincia di Arezzo, dove la sorella Cinzia é consigliere comunale. Non appena è emerso il sospetto della possibile nazionalità italiana di una delle vittime, la Farnesina si è subito attivata attraverso le rappresentanze diplomatiche a New Delhi e Mumbai, ed un responsabile del consolato di questa seconda città si è recato a Pune per il riconoscimento della salma. Fra le persone decedute, oltre alla Macerini, vi sono uno studente iraniano e sette indiani, mentre 12 stranieri – tra cui nessun altro italiano – fanno parte dell’elenco dei 60 feriti. Con questo attentato, realizzato da sconosciuti che hanno lasciato uno zaino imbottito di esplosivo sotto un tavolo, a 14 mesi di distanza dal sanguinoso attacco di un commando a Mumbai del novembre 2008 l’India è tornata apparentemente nel mirino del terrorismo. Le autorità indiane hanno adottato una linea prudente nelle indagini, sostenendo che la ‘German Bakery’ non era considerato un “obiettivo sensibile”, mentre lo era l’Osho Ashram, frequentato in passato dal cittadino pachistano-americano David Hendley, arrestato in ottobre a Chicago per complicità nell’attentato di Mumbai. E nel mirino dei terroristi poteva essere, a qualche centinaio di metri nel Koregaon Park, anche la Chabad House, luogo di culto ebraico. “Ma gli attentatori – ha sostenuto oggi il ministro dell’Interno, P. Chidambaram – hanno scelto il famoso caffé perché sempre pieno di turisti stranieri”. Il timore delle autorità indiane, che oggi hanno dichiarato lo stato di massima allerta per tre città, fra cui New Delhi, é che i movimenti clandestini islamici vogliano far fallire prima del nascere i colloqui di pace fra Pakistan e India che dovrebbero tenersi il 25 febbraio, con al centro la spinosa questione del Kashmir.

fonte: Ansa

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Cos’è l’Isi, il famigerato servizio segreto pachistano

L’Isi, Inter-Services Intelligence, e’ il famigerato servizio segreto pachistano da sempre associato a molti crimini che hanno scosso il subcontinente e gli stati limitrofi negli ultimi anni. Oltre 10000 sarebbero i suoi agenti, esclusi gli informatori. Fondato nel 1948, all’indomani della separazione del Pakistan dall’India, il servizio segreto pachistano negli anni ’50 divenne sempre piu’ legato al presidente di turno, staccato da qualsiasi controllo e soprattutto utilizzato per scopi politici, come indagini nei confronti di avversari politici del presidente. Nel corso degli anni, l’Isi ha acquistato sempre maggiore potere, tanto da essere chiamata ”lo stato nello stato”, definizione usata spesso anche da Benazir Bhutto. Dopo una riorganizzazione nel 1967, l’Isi, infatti, e’ stata impiegata durante le guerre con l’India, aiutando i militanti in Kashmir, ed altri conflitti nell’area. Ma, soprattutto, in Afghanistan, a seguito dell’invasione sovietica. Qui, foraggiati dalla Cia, gli agenti dell’Isi hanno tenuto moltissime operazioni coperte ed hanno addestrato i mujaheddin e i talebani, aiutando questi ultimi a salire al potere. I legami con i talebani sono ritenuti in piedi ancora oggi, tanto che c’e’ la convinzione che agenti dell’Isi informino i talebani degli attacchi americani attraverso aerei senza pilota, nella zona occidentale del Pakistan. Ma l’Isi, soprattutto sotto Musharraf, ha assunto contorni ancora piu’ oscuri. L’ex presidente e generale, nominando ai vertici del servizio suoi amici generali, si e’ assicurato i loro servigi, impiegandoli non solo nelle battaglie politiche di Musharraf, ma anche in operazioni terroristiche in India e in altri paesi. La mano dell’Isi e’ accertata negli attacchi a Mumbai del novembre dell’anno scorso ed e’ ritenuta molto probaile nell’attentato di quest’anno all’ambasciata indiana a Kabul e negli attentati alla metropolitana di Londra del luglio 2005. Dopo Musharraf, il capo dell’esercito, che comunque era stato nominato dall’ex presidente ed era il suo secondo, ha cambiato i vertici dei servizi, nominando un altro generale a se vicino, ancora oggi alla guida dell’Isi. Il governo pachistano ha tentato invano piu’ volte di controllare l’Isi. L’ultima volta, nel settembre dell’anno scorso, si e’ cercato, senza successo, di portare il controllo dell’Isi sotto il ministero degli interni e non sotto il capo di stato maggiore.

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Kashmir, scoperte fosse comuni con migliaia di cadaveri

Oltre 1.500 corpi ammassati, senza nome, di persone uccise e sepolte da chissa’ quanto tempo. Il ritrovamento di fosse comuni nel Kashmir indiano annunciato oggi dalla stampa pachistana riaccende i riflettori sul mistero delle persone scomparse nella regione a maggioranza musulmana contesa fra India e Pakistan e percorsa da una sanguinosa guerriglia separatista, spina nel fianco di New Delhi. I ”desaparecidos” sono tutti musulmani, alcuni spariti nel nulla dopo essere stati prelevati dalle loro abitazioni. E negli anni sono diventate migliaia le ”vedove bianche” o le madri che aspettano un figlio arrestato del quale non hanno piu’ ricevuto notizie. I parenti si sono da anni riuniti dal 1994 in un’associazione per tentare di avere notizie, qualche briciola di verita’, per chiedere giustizia, con la promessa di non abbassare la guardia. La Association of Parents of Disappeared Persons (Apdp) oggi ha uffici in tutto il Kashmir e un sito, sul quale sono conservate le foto dei ”desaparecidos”. L’Apdp ritiene siano almeno 10.000 in 20 anni punta il dito contro le guardie indiane al confine col Pakistan. Sul sito dell’ong sono raccolti ritagli della stampa locale, kashmira, che ricordano come molti siano stati arrestati dalle forze di sicurezza indiane con l’accusa di essere separatisti musulmani o terroristi infiltrati dal Pakistan. Jana Begum e’ una ”vedova bianca”. Sette anni fa il marito, un farmacista padre di cinque figli, e’ stato arrestato dagli agenti di Delhi senza che lei sappia nemmeno il motivo. Da allora il buio. ”Il mio cuore mi dice che e’ ancora vivo”, dice Jana al Washington Post. Parveena Ahangar aspetta invece dal 1990 che il figlio ritorni. E’ stato preso durante un raid dei militari indiani contro i separatisti. ”Mi hanno detto che quando l’hanno preso il mio ‘cuore’ (il figlio) mi chiamava e recitava la Kalimah”, la dichiarazione di fede nell’Islam. Manzoor Ahmad Wani, conducente d’autobus di 23 anni, e’ stato fermato nel 2001 dagli agenti mentre lavorava e portato via. La sua famiglia ha dovuto subire numerose minacce per aver denunciato la sua scomparsa. Anche la scrittrice indiana Arundati Roy – autrice del best seller ”Il dio delle piccole cose” – ha denunciato le violenze commesse dai militari indiani in Kashmir. ”Le forze di sicurezza indiane – ha detto – non solo combattono un piccolo numero di militanti, ma commettono ogni genere di violazione dei diritti umani e molti innocenti sono stati uccisi in nome della pace e della sicurezza”.

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Pakistan, così Al Qaeda sogna la bomba atomica

Di seguito un reportage di Guido Rampoldi, inviato di Repubblica, sul Pakistan. Interessante, anche se sbaglia a scrivere “Delhi”.

RAWALPINDI (Pakistan) – La Peshawar road costeggia per due chilometri il Quartier Generale delle Forze armate, una sequenza di caserme circondate dagli unici prati verdi di Rawalpindi; sul lato opposto, palazzine impettite come ufficiali sull’attenti ospitano le sedi di quelle Fondazioni che proiettano anche nell’economia il potere straripante dei generali pachistani. Superate le caserme, il paesaggio urbano rimpicciolisce per altri due chilometri in una fila di botteghe sormontate da cartelloni pubblicitari: scuole di informatica, scuole di inglese, olio di soya, la clinica cinese, i cassoni di plastica per l’acqua. Il pomeriggio c’è sempre molto traffico, ma il viale è largo e le motociclette possono zigzagare tra le macchine.
Quel 3 luglio, quando un pullman privato si è fermato al semaforo del crocevia chiamato Choor Chawk, un motociclista lo ha affiancato e ha fatto esplodere il tritolo di cui era imbottito il serbatoio. Dell’attentatore è rimasto a sufficienza per intuire l’età: molto giovane, uno dei tanti ragazzini convinti da astuti mullah ad ascendere in paradiso dentro una nuvola di fuoco. I passeggeri del pullman, la gran parte dei 23 feriti, non erano “infedeli”, come probabilmente gli era stato fatto credere, ma dipendenti del Kahuta Research Laboratories, forse il più importante centro di ricerche nucleari del Pakistan sin da quando lì fu concepita la Bomba.

Tutto quello che riguarda il Kahuta è protetto da un rigido segreto militare. Eppure i terroristi sapevano. Chi li ha informati sembra all’improvviso rivolgere le sue attenzioni alle 60-100 testate atomiche che sono l’orgoglio del Pakistan, l’incubo dell’India e il sogno di Al Qaeda. Con quale disegno?

Risaliamo i tre chilometri più spiati del Pakistan per girare la domanda al portavoce del Quartier generale, un colonnello. La zona che traversiamo ha visto negli ultimi mesi tre attentati contro obiettivi o personalità militari, quattro calcolando anche l’attacco al pullman del Kahuta. In queste azioni, mi dice il colonnello, “i terroristi hanno dimostrato di possedere informazioni riservate cui non sono in grado di arrivare da soli: dunque deve averli informati uno spionaggio straniero”. Oppure hanno complici nelle Forze armate, e forse anche nel programma nucleare, potremmo aggiungere. In un caso o nell’altro, l’attentato di Rawalpindi racconta la proliferazione atomica come proliferazione di intrighi e di rischi colossali. E forse dice che il Pakistan si sta avvicinando al bivio fatale. Di qua il disastro, se non l’apocalisse; di là la salvezza e la pace.

La Bomba ha reso al Pakistan non poco. Prestigio internazionale, la considerazione dei Paesi islamici, un deterrente per tenere a bada il poderoso vicino indiano, l’amicizia di due alleati tuttora strategici, la Cina e l’Arabia Saudita. Ma ha suscitato anche ostilità e cospirazioni. Zulfikar Bhutto, il premier che aveva sfidato gli americani promettendo “Mangeremo erba ma costruiremo la nostra atomica”, morì sulla forca, impiccato da generali amici di Washington. Alcuni tra gli scienziati cui Bhutto aveva ordinato “implorate, prendete a prestito, rubate, ma procuratevi la Bomba”, compiuta la missione continuarono a praticare metodi discutibili, suscitando sospetti sull’affidabilità del Pakistan. Abdul Qadeer Khan, già direttore del Kahuta Research Laboratories, divenne il facilitatore occulto di altri programmi nucleari (iraniano, nordcoreano, libico) che si avvalsero della sua consulenza, se non anche della tecnologia che Khan maneggiava.
Pakistan, così Al Qaeda sogna la bomba atomica

Missile a testata nucleare portato in parata in Pakistan

Arrestato nel 2003 su pressione americana, scarcerato di recente malgrado le apprensioni dell’amministrazione Obama, tra i suoi compatrioti Khan resta il popolarissimo “padre della Bomba”. Non ha mai svelato i suoi segreti. Un suo collega, Sultan Mahmood, responsabile del reattore nucleare di Khushab e notabile di un partito filo-Taliban, ha dovuto ammettere che Osama bin Laden gli chiese una consulenza per costruire un ordigno “sul genere di Hiroshima”. E già da questi esempi si ricava che ai grandi fisici nucleari pachistani le offerte di lavoro non devono mancare, tanto più da quando le Forze armate hanno impresso al programma atomico un’accelerazione. La scoperta di un giacimento di plutonio nel Punjab ha permesso di avviare, in joint venture con i cinesi, un progetto per fabbricare testate nucleari più potenti e più piccole, dunque lanciabili non più soltanto da rampe fisse ma anche da aerei.

Oltre ad avere il programma atomico più rapido del mondo, il Pakistan ha un altro primato poco rassicurante: la più vaga tra le dottrine militari. Chi possiede l’arma atomica di regola si premura di indicare con la massima precisione – alle proprie Forze armate e allo stesso tempo a potenziali aggressori – in quali situazioni sarà premuto il bottone fatale. Il Pakistan sembra fare eccezione. La sua dottrina di difesa, denominata “Minima deterrenza accettabile”, non è in un documento pubblico. E quel che si conosce per linee generali inquieta. Islamabad si riprometterebbe di usare le sue atomiche in un ventaglio di ipotesi. Innanzitutto qualora subisse “un’invasione massiccia”, formula però vaga. Per esempio, è probabile che la Nato si sia chiesta se si esporrebbe ad una rappresaglia atomica lanciando una grande operazione in territorio pachistano per decapitare i Taliban. Non meno indefinite sono le due ipotesi successive: Islamabad ritiene motivo sufficiente per usare la Bomba sia un’interruzione delle sue maggiori linee di approvvigionamento (per esempio, se la flotta indiana bloccasse i suoi porti o Dehli riducesse la portata del fiume Indo) sia una minaccia all’unità territoriale e alla stabilità del Paese, quale potrebbe essere la sollevazione del Beluchistan, dove opera da anni un forte secessionismo armato. Tuttavia nelle tradizioni militari pachistane c’è una sana riluttanza ad annichilire popolazioni nemiche. Dopotutto, le tre guerre combattute tra India e Pakistan sono stati tutte molto brevi e poco cruente e mai uno dei contendenti ha bombardato città.

Paradossalmente, il problema è l’equilibrio del terrore. Ha evitato una quarta guerra, ma ha suggerito a India e Pakistan di combattersi per procura e secondo geometrie sghembe, come i due Blocchi durante la Guerra fredda. Il prodotto di queste ostilità è un conflitto asimmetrico oggi molto rischioso per l’intera regione. E’ successo questo. Da una parte il Pakistan ha inglobato nel suo sistema di difesa le milizie islamiche che avevano combattuto contro i sovietici, e le ha utilizzate in Kashmir e in Afghanistan. Finché Musharraf le ha scaricate per assecondare gli americani. All’improvviso quei guerrieri fondamentalisti hanno perso prestigio, soldo, ruolo e traffici indotti, insomma tutto tranne i finanziatori arabi e forse alcuni amici nei servizi segreti del Pakistan. Cercando un conflitto in cui far valere il loro mestiere, si sono avvicinati ai Taliban pachistani e ad Al Qaeda, cui hanno portato in dote una rete terroristica diffusa sul territorio nazionale. Insieme, ora combattono un conflitto che ha per posta il Pakistan e le sue bombe atomiche. “Le prenderemo e le useremo contro gli americani”, ha promesso ad una tv araba il capo di Al Qaeda per l’Afghanistan, Mustafa al Yazid, dieci giorni prima che a Rawalpindi i terroristi colpissero i dipendenti del Kahuta Research Laboratories.

A sua volta l’India ha aperto misteriosi uffici consolari in Afghanistan, lungo la frontiera con il Pakistan. Con quelli, e per il tramite di tribù afghane, riuscirebbe a far arrivare armi e denaro sia al secessionismo del Beluchistan sia ad un settore dei Taliban. Islamabad fa sapere di poterlo provare, così come lascia intendere anche il comunicato diffuso a conclusione di un incontro bilaterale, due settimane fa (“Il primo ministro del Pakistan, Gilani, ha affermato di possedere alcune informazioni circa minacce in Beluchistan e altre aree”). Finora inascoltato, l’establishment pachistano sussurra da tempo la seguente accusa: l’India vuole mantenere il Pakistan in uno stato di instabilità controllata, affinché la comunità internazionale si convinca che questo è uno Stato fallito, inaffidabile; e profittando della sua debolezza finanziaria, lo costringa a mettere le sue bombe atomiche sotto sorveglianza internazionale, o almeno a interrompere il suo tumultuoso programma nucleare. Dehli avrebbe un secondo obiettivo strategico: rendere insicura la strada che corre dalle pendici del Karakorum fino al porto di Gwadar, nel Baluchistan pachistano. Presto permetterà alle merci cinesi di raggiungere l’Oceano nominalmente ancora Indiano, e al petrolio arabo di raggiungere la Cina, risparmiando ben tre settimane e relativi costi di trasporto.

Nell’albergo di Islamabad preferito dagli stranieri ormai gli ospiti cinesi sono numerosi quanto gli occidentali. L’influenza di Pechino è discreta ma crescente. In primavera, quando i Taliban sono arrivati a cento chilometri dalla capitale, non solo gli Usa ma anche la Cina hanno incalzato il Pakistan a reagire. Il contrattacco delle Forze armate sarebbe stato blando come le altre volte, se i generali non si fossero convinti che alcune bande di Taliban sono funzionali ai progetti dello spionaggio indiano. Come folgorato da questa percezione nuova, in maggio l’Esercito ha attaccato i Taliban dello Swat e li ha combattuti con una determinazione mai mostrata in passato. Tre mesi dopo, quelle vallate sono ancora insicure; fuggita in montagna, la guerriglia continua a uccidere soldati e a terrorizzare civili. Ma questo è quasi secondario. Per quanto vada ancora verificata, la conversione di Islamabad ne migliora l’immagine internazionale e permette agli americani di aumentare la pressione su Dehli perché accetti un compromesso. Nelle speranze dell’amministrazione Obama, i due nemici rinunceranno a colpirsi per procura e avvieranno una cooperazione contro il terrorismo di cui si intravede qualche timido segnale. A quel punto non sarebbe impossibile negoziare un accordo sul Kashmir. E tutto questo sarebbe di beneficio anche alla situazione in Afghanistan.

In apparenza minuscoli ma in realtà rilevanti, alcuni gesti di disponibilità scambiati in luglio tra Dehli e Islamabad suggeriscono che un processo di pace non è impossibile. Però suscita un’opposizione occulta, mossa da interessi interni e internazionali, in India come in Pakistan. Il partito del conflitto permanente l’anno scorso si è servito del massacro di Mumbai per paralizzare il dialogo tra i due governi e da allora ha riconquistato terreno. In luglio l’India ha varato il suo primo sottomarino nucleare e il terrorismo ha messo gli occhi sulla Bomba pachistana. Il sottomarino ha un nome mitologico che sta per “Distruttore dei nemici”. La Bomba pachistana viaggia su missili chiamati come i conquistatori musulmani dell’India. Ma questo è nella tradizione locale. Di nuovo c’è il fatto che la corsa ultratecnologica all’armamento nucleare ormai bordeggia il campo di battaglia della guerra asimmetrica. Prossimità ormai perfino fisica: uno dei siti nucleari pachistani si troverebbe appunto a ridosso di un territorio “talibanizzato”. Non è difficile immaginare dove potrebbe condurre tutto questo se il contenzioso indo-pachistano fosse abbandonato alla sua deriva.

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Conferenza stampa congiunta Zardari-Karzai, insieme contro il terrorismo

Pakistan e Afghanistan insieme nella lotta al terrorismo. Lo hanno ribadito ad Islamabad il presidente afghano Hamid Karzai e quello pachistano Asif Ali Zardari, nella conferenza stampa seguita al giuramento di quest’ultimo nel diventare la prima carica dello stato islamico. Entrambi i paesi hanno dichiarato di combattere ”lo stesso male” e si sono impegnati a trovare una soluzione soprattutto nelle zone di confine, dove si registrano i maggiori problemi. Nelle aree tribali pachistane del nord ovest del paese, ai confini con l’Afghanistan, i labili confini hanno permesso negli anni l’ingresso di centinaia di migliaia di afghani, molti dei quali vicini alle posizioni di Al Qaeda e di Bin Laden. Anche per il terrorista saudita si e’ parlato piu’ volte di rifugi in Pakistan. Qui oltre ai taleban locali, si sono infiltrati molti talebani afghani, confusi tra le centinaia di migliaia di profughi, oramai alla seconda generazione, scappati prima dall’occupazione russa, poi dal regime talebano di Kabul e infine dalla guerra al terrorismo. Gli estremisti hanno trovato in molte tribu’ locali pachistane, un rifugio sicuro, dal quale coordinare operazioni sia in Pakistan che in Afghanistan, per imporre la legge islamica nell’area. Zardari ha detto a Karzai che il Pakistan intende lavorare con l’Afghanistan in ogni situazione, ”da oggi a domani il mio governo si occupera’ del problema in prospettiva regionale, lavorando con voi, insieme con voi”’. Per Karzai, che ha definito Zardari ”un amico”, Pakistan e Afghanistan sono come gemelli identici. ”E’ perche’ soffriamo degli stessi problemi provocati dallo stesso male”. Il presidente afghano ha ribadito la necessita’ di sforzi congiunti per assicurare la pace e la prosperita’ nei due paesi e nella regione. Ha detto che l’Afghanistan continuera’ a fare passi nello sradicamento del terrorismo dall’area e sosterra’ il Pakistan nei suoi sforzi nella stessa causa. Entrambi, hanno espresso la necessita’ di lavorare insieme nella lotta al terrore. Zardari ha ricordato come la sua famiglia, citando l’uccisione della moglie Benazir Bhutto, sia stata vittima del terrorismo, episodio ceh portera’ dinanzi all’ONU nella sua prossima visita. I due paesi hanno anche espresso condanna forte nei confronti delle vittime civili. ”E’ un argomento molto serio e non potra’ essere tollerato in Afghanistan e in Pakistan”, ha detto Karzai, che ha spiegato che i due presidenti hanno deciso di approfondire l’argomento per trovare una linea di condotta univoca. Pur continuando a supportare la Nato, Karzai ha detto che ”diciamo no alle morti civili, siamo dedicati alla lotta al terrorismo perche’ porta sicurezza e garanzie al nostro popolo”. Sull’argomento Zardari ha respinto l’accusa secondo la quale il suo governo non avrebbe preso posizioni nei confronti degli USA e della NATO rispetto alle incursioni nel territorio pachistano e alle vittime civili, spiegando come Islamabad ha protestato con i vertici americani a diversi livelli. ”La presenza delle forze americane in Afgnahistan – ha detto Zardari – e’ in accordo con la carta dell’ONU”,  ribadendo che ”neanche un centimetro del territorio pachistano cadra’ nelle mani dei miscredenti”, alludendo all’azione dell’esercito pachistano nelle aree tribali del nord ovest. Il problema delle vittime civili preoccupa anche la Nato che ha ammesso oggi di aver modificato le regole di ingaggio dopo i tanti episodi avvenuti. Anche la Francia ha espresso il suo rammarico per la perdita di civili al confine afghano-pachistano, che minerebbe anche gli sforzi internazionali nell’area. Pur non citando mai gli Usa, Eric Chevallier, portavoce del ministro degli esteri francese, secondo quanto riporta on line il giornale pachistano The News, ha detto che le incursioni ”non solo creano tragedie umane, ma la situazione ha anche effetti controproducenti nelle dinamiche politiche che vogliamo vedere, che significa partnership tra Afghanistan, Pakistan e la comunita’ internazionale. Secondo Chevallier, bombardamenti  come quelli che hanno colpito le zone tribali pachistane, ”creano sofferenza nella popolazione civile e problemi nel cercare di raggiungere un compromesso e l’accettazione da parte di queste popolazioni nei confroti della presenza internazionale nella regione”. Il presidente americano George W. Bush non ha voluto mancare di dare la sua benedizione all’insediamento di Zardari e all’annunciata collaborazione con Kabul: in una telefonata gli ha assicurato “il sostegno totale del governo americano nell’impegno del Pakistan contro i terroristi e gli estremisti”.

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India e Pakistan si incontrano e decidono di non decidere

Al termine della due giorni di colloqui, India e Pakistan hanno solo deciso di scambiarsi informazioni sui rispettivi prigionieri politici garantendosi reciprocamente facilitazioni consolari. L’incontro di oggi a Islamabad tra il ministro degli esteri indiano Pranab Mukherjee e il suo omologo pachistano Shah Mehmood Qureshi, era stato annunciato come un incontro, se non decisivo, molto importante sulla definizione di dispute storiche come quella del Kashmir e del ghiacciaio del Siachen. Invece nel primo incontro tra New Delhi e il primo governo pachistano post Musharraf, le parti si sono incontrate e studiate, rinviando a luglio altre decisioni. Il processo di pace e’ cominciato quattro anni fa, ma e’ stato sospeso tutto lo scorso anno per la instabile situazione politica pachistana. Il primo incontro tra i responsabili delle due diplomazie, preceduto da un meeting dei sottosegretari agli esteri che hanno scritto l’agenda degli incontri di oggi, doveva dare una sferzata alla soluzione delle questioni pendenti, Kashmir in testa, soprattutto dopo le accuse rivolte da New Delhi a Islamabad di non rispettare la tregua e il cessate il fuoco sulla LoC, la Line of Contorl, il confine conteso tra le due nazioni nucleari, dove la settimana scorsa un militare indiano e’ stato ucciso da fuoco proveniente da parte pachistana. Mukherjee ha incontrato anche il primo ministro Yousuf Raza Gilani, il presidente Pervez Musharraf (che ha ribadito l’impegno del Pakistan sulla via della pace), il leader del Partito Popolare Pachistano Asif ALi Zardari e quello della Lega Musulmana Pachistana-N Nawaz Sharif. Gli incontri sono comunque stati definiti ”proficui” e ”cordiali” anche per il fatto di aver ripreso, da parte di New Delhi, contatti dopo il cambio di governo in Pakistan.

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In pericolo le capre delle pashmine

Migliaia di capre che forniscono la lana per i celebri scialli ”pashmina”, ormai diffusi in tutto il mondo, stanno morendo a causa di una fortissima ondata di freddo. Gli stati indiani del Ladakh e del Kashmir, dove si trovano gran parte degli allevamenti di queste capre, sono coperti di neve. Secondo dati forniti dalle autorita’ del Ladakh, circa 150000 capre sarebbero in difficolta’ a causa della mancanza di cibo; di queste 100.000 rischierebbero di morire se non verra’ loro fornito al piu’ presto del mangime. Le provviste dell’amministrazione locale si sono gia’ esaurite. Per questo le autorita’ hanno chiesto al Ministero della difesa indiano di raggiungere, con aerei ed elicotteri, le aree isolate dalla neve, per portare cibo per gli animali. Si teme anche per la continuazione della specie in quanto, a causa del freddo e della malnutrizione, la maggior parte delle capre incinte hanno abortito spontaneamente e molti piccoli sono morti, non sopravvivendo alle intemperie. Gia’ prima dell’arrivo del freddo, inoltre, la sopravvivenza delle capre, aveva subito un duro colpo, soprattutto in alcuni distretti, a causa della scarsita’ di erba dovuta ad una invasione di locuste verificatasi in piu’ occasioni negli ultimi tre anni. Gli scialli e le sciarpe fatti con la lana di questa particolare capra, noti con il nome di Pashmina, sono ricercatissimi in ogni parte del mondo ed esportati dovunque. Sulle montagne dell’Himalaya, inoltre, vive anche una antilope assai rara, Chiru, dalla cui lana si producevano i cosiddetti scialli di ”shahtoosh”. Il commercio internazionale degli shahtoosh e’ stato proibito per proteggere la specie, che rischiava altrimenti l’estinzione.

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