Hakemullah Mehsud, leader del piu’ potente gruppo talebano pachistano, il Therik-e-Taliban Pakistan (Ttp) potrebbe essere tra le 14 vittime di un attacco missilistico da parte di un drone americano nel nord ovest del Pakistan. La notizia della morte del leader talebano, implicato anche nell’attentato suicida nel quale sono morti in Afghanistan sette agenti Cia, si e’ diffusa in mattinata, poche ore dopo l’annuncio dell’attacco missilistico di un aereo senza pilota statunitense nel villaggio di Garyom, ai confini tra Nord e Sud Waziristan. Qui il drone ha colpito, nell’area di Shaktoi, dove si trovava un seminario, una scuola coranica e quello che e’ stato identificato come un campo di addestramento. I due missili hanno abbattuto le costruzioni, tra le quali la casa di un capo tribale, Muhammad Yaqoob, nella quale si ritiene fosse Hakemullah al momento dell’attacco. Poco dopo la diffusione della notizia della morte del leader talebano, un portavoce del Ttp, Azam Tariq, ha detto che ”Hakemullah Mehsud era presente al momento dell’attacco del drone ma è scappato prima. E’ sano e salvo”, spiegando che il leader talebano si trovava sul posto ma era scappato in tempo. La smentita del portavoce non e’ pero’ ritenuta attendibile dalle autorita’. Ad agosto scorso un missile americano lanciato da un drone, uccise, insieme ad altri leader talebani, Baitullah Mehsud, cugino di Hakimullah e leader storico del Ttp del quale Hakimullah era portavoce. La morte di Baitullah, che era ritenuto il terminale pachistano di Al Qaeda e responsabile tra gli altri dell’attentato a Benazir Bhutto, fu smentita subito dallo stesso Hakimullah, per poi essere confermata settimane dopo. Per ben due volte, anche lo stesso Hakimullah, nell’immediatezza della morte di Baitullah, era stato dato per morto da fonti governative, nelle lotte di successione a Baitullah. Hakimullah Mehsud, la settimana scorsa, era apparso in un video alle spalle dell’agente segreto giordano Humam Khalil al-Balawi, che si e’ fatto epslodere a Khost in Afghanistan uccidendo sette agenti Cia per i quali lavorava. Nel video Balawi annunciava un attentato proprio per vendicare la morte di Baitullah.
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Missile da drone forse uccide leader talebano, gruppo smentisce
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Via libera all’accordo nucleare India-USA, alla faccia degli accordi internazionali
Pur se dalla porta di servizio, scavalcando i paesi in fila da anni, l’India riesce ad arrivare al primo posto in fatto di nucleare e assicurarsi l’accordo agognato con gli Stati Uniti. Dopo tre anni di dibattiti a Washington, Delhi e Vienna, il senato americano ha, a larga maggioranza, approvato l’accordo di cooperazione nucleare civile tra Stati Uniti e India, con il quale Washington fornira’ tecnologie e carburante a New Delhi per le sue 14 (che potranno aumentare) centrali nucleari civili. E’ stata una vittoria voluta, cercata e ottenuta tutta dal primo ministro indiano Manmohan Singh che, per conseguirla, ha anche dovuto registrare le critiche dalla sua maggioranza sfociate nell’abbandono dei partiti comunisti, abbandono in seguito al quale e’ dovuto ricorrere ad un discorso alla nazione per spiegare la bonta’ dell’accordo. Una vittoria che proietta Singh da ‘yes man’ di Sonia Gandhi, come veniva dipinto dalla stampa indiana, direttamente verso un secondo mandato se il suo partito dovesse rivincere le elezioni di maggio 2009. Con l’accordo di oggi, l’India esce dall’isolamento dei paesi nucleari cominciato nel 1974, quando inizio’ test terminati nel 1998. Delhi non ha mai sottoscritto l’accordo di non proliferazione nucleare e 8 delle sue ventidue centrali nucleari (altre nove sono in costruzione), sono militari. Proprio la distinzione netta tra nucleare civile e militare e’ stata la chiave che, insieme alle possibilita’ economiche enormi di investimento da parte di aziende americane, ha convinto i senatori americani a dare il via libera all’accordo che ruotera’ intorno a 70 miliardi di dollari di scambi commerciali. Delhi, che ha anche ospitato una missione di ispettori dell’Aiea, l’agenzia internazionale per l’energia atomica che ha sede a Vienna, si e’ impegnata a tenere distinte le due cose, assicurando che il carburante e le tecnologie americane, alle quali seguiranno quelle francesi e russe, serviranno solo ad alleviare l’atavica mancanza di energia nel paese, favorendone lo sviluppo. Il nucleare al momento fornisce meno del 3% di elettricita’ al paese e a pieno regime nel 2050, dovrebbe arrivare secondo stime, ad una quota del 25%. Ma questo non riduce la portata dell’evento e della vittoria di Singh, che ha riportato l’India piu’ che mai al centro dello scacchiere internazionale, dimostrando come trattati internazionali, come quello di non proliferazione, possano essere aggirati e calpestati in presenza di denaro e promesse. Neanche la dura opposizione interna e le proteste straniere (Pakistan, Iran e Cina, in primo piano) offuscano la vittoria di Manmohan Singh. I partiti comunisti ex alleati di governo hanno promesso di continuare a dare battaglia e dopodomani scenderanno in piazza per osservare un ‘giorno di lutto”. Proteste nate dalla volonta’ di non sentirsi sussidiari agli Usa e appoggiate dall’opposizione dei partiti nazionalisti indu’ che, invece, temendo il Pakistan, criticano l’aver accettato di non poter piu’ effettuare test atomici. Il Pakistan non si e’ opposto all’accordo, ma ne ha chiesto uno simile. L’accordo indo-americano, non solo ha creato un precedente, ma ha anche spostato il gioco delle alleanze nell’area, avvicinando l’India agli USA e il Pakistan alla Cina, in uno scambio vicendevole. La Cina, che in sede di Nsg (il Nuclear Supplier Group, il gruppo di paesi che hanno l’energia nucleare) si era opposta all’accordo tra New Delhi e Washington, ora appoggia la richiesta pachistana di accedere allo stesso tipo di accordo. Ma sara’ difficile che venga fatto un altro strappo. Dopotutto, sentenzieranno l’Aiea e l’Nsg, il Pakistan non offre le stesse garanzie di stabilita’ dell’India. Ma, per l’intanto, Islamabad continua ad avere la bomba atomica.
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La ciliegina sulla torta
Come fa notare con precisione il mio amico Mimmo, gli Usa hanno deciso di depennare la Cina dall’elenco dei paesi che non rispettano i diritti civili. Ma in che mondo viviamo? Se non è negazione di diritti civili la censura alla stampa, l’impossibilità di esprimere le proprie idee, la negazione dei diritti, l’applicazione della pena di morte per reati anche lievi (in verità una moratoria in tal senso è stata applicata dal governo di Pechino), la mancanza di libertà, la impossibilità di esprimere idee politiche diverse e dissidi politici, quali sono i diritti civili? Sono osservanti dei diritti civili coloro che impediscono ad una cultura millenaria di continuare, vietandone tradizione, costumi, lingua, religione? Rappresenta il rispetto dei diritti civili arrestate e tenere in una galera sconosciuta, senza fornire spiegazioni, un bambino di 6 anni nel 95 perché espressione del potere politico-religioso di una regione che si vuole annullare totalmente? Se questi sono i diritti civili, allora non ho capito io nulla. E la cosa che mi fa ribrezzo, anche se non mi stupisce per ovvi accordi economici e di interesse, è che gli USA, che hanno il pretesto di esportare la democrazia nel mondo (spesso con l’uso delle armi), abbiano preso una decisione del genere. Ma vaffanculo!
Di seguito il pezzo del Corriere della Sera edizione on line
WASHINGTON – La Cina non è più nella lista nera Usa dei paesi che compiono maggiori violazioni dei diritti umani, rivela un rapporto annuale diffuso oggi dal Dipartimento di Stato. Ma la Cina continua a negare alla sua popolazione diritti umani di base – afferma il rapporto – e continua a torturare i prigionieri.
La lista nera stilata dal Dipartimento di Stato comprende quest’anno Corea del Nord, Birmania, Iran, Siria, Zimbabwe, Cuba, Bielorussia, Uzbekistan, Eritrea e Sudan. La Cina era stata inclusa negli ultimi due anni in questa lista dei paesi che compiono maggiori violazioni dei diritti umani. Il documento del Dipartimento di Stato segnala notevoli miglioramenti sul fronte del rispetto dei diritti umani in quattro paesi: Mauritania, Ghana, Marocco ed Haiti.
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