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Candidato al Nobel

Ebbene si, anch’io sono candidato al Nobel 2010. Da quando è stato deciso che bastano le intenzioni per vincerlo, hanno candidato anche me. Io ho solo quelle. Dopotutto io il Dalai l’ho incontrato, come pure Amartya Sen, quindi due premi Nobel li ho già incontrato. Una volta ho parlato a telefono con Yunus, e sono tre. Non so quale Nobel, vedete voi. Sostenete la mia candidatura. Cerco anche qualcuno che possa realizzare per me video e inno. Prezzi modici.
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Celebrata dai cinesi la giornata di liberazione dal Dalai Lama

La Cina ha celebrato ieri per la prima volta il Giorno della Liberazione dalla Schiavitù nell’anniversario dell’ istituzione del primo governo filo-cinese nel Tibet. Il territorio fu definitivamente annesso alla Repubblica Popolare Cinese il 28 marzo del 1959, dopo la sconfitta della rivolta iniziata il 10 marzo, che si concluse con la fuga in India del Dalai Lama. In una cerimonia sulla piazza antistante il Potala, il palazzo d’inverno dei Dalai Lama a Lhasa, il governo ha lanciato il suo messaggio, secondo il quale l’occupazione del Tibet da parte dell’ esercito cinese ha messo fine ad un oppressivo regime feudale. A poco più di un anno dall’inizio della rivolta dell’anno scorso, iniziata a Lhasa e poi estesasi ad altre zone a popolazione tibetana della Cina, gli oratori hanno parlato davanti ad una folla di migliaia di tibetani vestiti nei loro costumi tradizionali. La cerimonia si è svolta mentre la maggior parte delle aree a popolazione tibetana sono guardate a vista da migliaia di uomini della polizia armata del popolo, che perquisiscono tutti coloro che entrano ed escono dalle zone “pericolose” e impediscono l’accesso a tutti gli stranieri. Dall’inizio del “lockdown” del Tibet, nella prima settimana di marzo, almeno 200 persone sono state arrestate dopo manifestazioni di protesta. Zhang Qingli, il segretario del partito comunista locale, ha affermato tra l’altro che “qualsiasi complotto per rendere il Tibet indipendente, per separarlo dalla Cina socialista, è destinato a fallire”. La cerimonia, che è stata trasmessa in diretta dalla tv di Stato, ha segnato il culmine di una lunga campagna di propaganda rivolta in primo luogo contro la “cricca” del Dalai Lama, il leader tibetano che chiede per il territorio quella che chiama una “vera” autonomia ma che secondo il governo cinese punta in realtà alla creazione di un Paese indipendente. Visitando ieri una mostra sul Tibet a Pechino, il presidente cinese Hu Jintao ha detto che l’attuale “buona situazione” del territorio “é stata conquistata a duro prezzo e deve essere fortemente apprezzata”, riferisce l’agenzia Nuova Cina. In una conferenza stampa a Dharamsala in India, dove risiede il Dalai Lama, la rappresentante del governo tibetano in esilio Kesang Y.Takla ha sostenuto che “i tibetani considerano questa celebrazione offensiva e provocatoria” e che la “massiccia propaganda” del governo cinese è volta a “nascondere la repressione in atto” nel territorio. Takla ha aggiunto che prima del 1959 i detenuti nelle prigioni del Tibet erano “poco più di un centinaio”. “Dopo la cosidetta ‘liberazione’ e l’emancipazione dei ‘servi’ prigioni sono sorte in ogni parte del Tibet. Nella sola Lhasa ci sono cinque prigioni principali con una popolazione di detenuti tra i tremila e cinquecento e i quattromila”. I tibetani in esilio hanno organizzato manifestazioni di protesta anticinesi a Londra, Parigi, Bruxelles, San Francisco, New York, Toronto, Montreal, Taipei, New Delhi e Dharamsala.

fonte: ANSA

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La Cina celebra domani giornata di liberazione da Dalai Lama

La Cina si prepara a celebrare domani, per la prima volta, la Festa della Liberazione dalla Schiavitù nel cinquantesimo anniversario della istituzione del primo governo cinese nel Tibet, che era stato occupato nel 1950 dalle truppe dell’ Esercito di Liberazione Popolare. La Festa segna il culmine di una lunga campagna di propaganda del Partito Comunista Cinese che per gli ultimi due mesi ha inondato i mezzi di comunicazione cinesi, tutti sotto il suo controllo, di denunce della “cricca del Dalai Lama”, il leader tibetano in esilio che chiede una “vera” autonomia per il territorio ma che Pechino accusa di puntare in realtà alla secessione del Tibet dalla Cina. La scrittrice e poetessa tibetana Woeser, interpellata dall’ ANSA, ha definito “ridicola” l’ iniziativa. “E’ la prima volta in 50 anni che viene celebrata questa festa, si tratta di una risposta alle manifestazioni di protesta dell’ anno scorso”, ha aggiunto. “Il governo dovrebbe rispondere piuttosto ad una sola domanda: come mai tanti tibetani protestano ancora contro la Cina?”, ha concluso Woeser, che ha 41 anni e vive a Pechino col marito, lo scrittore cinese Wang Xilong. Woeser ha diffuso nei giorni scorsi sul suo blog alcuni fotogrammi di un filmato girato l’ anno scorso in Tibet, nel quale si vede la polizia cinese che picchia a sangue alcuni monaci e civili tibetani con le mani legate dietro la schiena. Pechino ha sostenuto che il filmato – proveniente dal governo tibetano in esilio fedele al Dalai Lama – è stato “manipolato” e ha bloccato per oltre quattro giorni il sito web “Youtube”, sul quale era visibile. “Youtube” è tornato ad essere accessibile dalla Cina nella serata di venerdì. In quello che è stato interpretato come un indiretto attacco al Dalai Lama, il “numero due” della gerarchia tibetana, il Panchen Lama nominato da Pechino, ha affermato che il territorio “si trova di fronte all’ attacco di un individuo senza scrupoli”. Per domani è stata annunciata una “cerimonia teletrasmessa” che si svolgerà a Pechino. Non è chiaro se siano state programmate attività a Lhasa, capitale della Regione Autonoma del Tibet. Dall’ inizio di marzo tutta la Regione Autonoma e altre vaste zone a popolazione tibetana delle altre province cinesi sono strette in una morsa di controlli e posti di blocco dalla Polizia Armata del Popolo, il corpo paramilitare addetto al controllo dell’ ordine pubblico. Dalla zona, completamente sigillata, sono filtrate notizie di manifestazioni di protesta e di decine di arresti dalla province del Sichuan e del Qinghai. Nel marzo dell’ anno scorso iniziarono a Lhasa proteste che poi si estesero ad altre zone tibetane e proseguirono fino alla fine di maggio. I tibetani in esilio affermano che almeno 200 persone hanno perso la vita nella repressione che è seguita, mentre la Cina parla di una ventina di vittime, in grande maggioranza immigrati cinesi uccisi dai rivoltosi tibetani.
Per il governo tibetano in esilio, la Festa della liberazione della schiavitù proclamata per domani dal governo cinese “sta aggravando i problemi in Tibet con una iniziativa offensiva, provocatoria e destabilizzante, con l’intenzione di creare caos”. Lo afferma oggi in un comunicato il ‘Kashag’, l’organo di governo tibetano in esilio a Dharamsala nel nord dell’India, che reagisce fermamente alle celebrazioni indette per domani. Il Kashag ha parole dure e annuncia che “se i tibetani perdono la looro pazienza, scenderanno per le strade a protestare, consapevoli che daranno così la scusa ai leader cinesi per usare ancor più forza bruta per fermarli”. Nel comunicato Il Kashag tibetan denuncia lo stato di sudditanza nel quale si trovano i tibetani, sottomessi all’esercito cinese, annunciando che domani sarà osservato da tutti i tibetani del mondo un giorno di lutto. Il Kashag contesta anche la caratterizzazione di “stato feudale” usata da Pechino per giustificare l’invasione del 1950.

fonte: ANSA

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La dignità perduta

Questo articolo è tratto dal Corriere della Sera di oggi. E’ l’editoriale in prima pagina di Franco Venturini, uno dei più grandi giornalisti italiani e, per mia fortuna, persona che conosco personalmente del quale apprezzo sia le doti umane che professionali. Come credo, dopo aver letto questo pezzo, anche voi. Franco da tempo scrive contro l’ipocrisia dei paesi nella faccenda tibetana e contro le repressioni cinesi. Basta inserire il suo nome su google che appariranno i suoi scritti.

La decisione del governo sudafricano di negare il visto d’ingresso al Dalai Lama non è purtroppo senza precedenti, ma è più inaccettabile di tutte le altre per almeno due motivi. Il primo riguarda la storia del Sudafrica. Una storia marchiata a fuoco dalla tragedia dell’apartheid, dalla discriminazione fatta sistema come in nessuna altra parte del mondo. Il Sudafrica moderno e multirazziale, quello di oggi, nasce dalla riconciliazione nazionale ma anche da un ripudio collettivo di quell’esperienza, si specchia in Nelson Mandela ex perseguitato e poi presidente, trova la sua identità nell’appartenenza a quella comunità di valori (l’Occidente) che sanzionò l’apartheid fino ad abbatterlo. Chi ha una storia del genere dovrebbe sentirsi obbligato a restarle fedele. Ed è per questo che la scelta del governo di Pretoria di non accogliere il leader spirituale di una minoranza oppressa assume i contorni di una vergognosa auto-sconfessione, di una fuga dalla propria insanguinata e sofferta identità.

Il secondo motivo che pesa sulla decisione sudafricana si chiama minacce cinesi, quelle alle quali Pretoria ha ceduto. Da qualche anno ormai la Cina conduce una strisciante ri-colonizzazione dell’Africa. Ovunque esistano fonti di energia — e in Africa ce ne sono in abbondanza — i cinesi investono, costruiscono, sottoscrivono contratti pluridecennali, offrono copertura politica ai governi. Le influenze americana o francese, per tanti anni rivali, oggi sono soltanto un ricordo. È evidente che questo stato di cose garantisce alla Cina una capacità d’interdizione particolarmente efficace in tutto il Continente Nero. Così come è assai probabile che i sudafricani, nella loro scelta, non abbiano dimenticato che la Cina è il principale partner commerciale di Pretoria. Ma questi dati di fatto, se rendono più comprensibili i motivi che hanno ispirato la decisione, non la giustificano. Al contrario. Proprio in quanto Stato africano che si richiama ai valori libertari dell’Occidente, il Sudafrica non dovrebbe ragionare esclusivamente con il pallottoliere dei commerci e dimenticare i valori assai diversi che la Cina porta nel continente: dal Congo dei massacri fino al caso tragico del Darfur, i cinesi si disinteressano totalmente del rispetto dei diritti umani e puntano al sodo. Cioè a sfruttare le fonti di energia e a sostenere i governi compiacenti.

Da ieri, il governo sudafricano si è iscritto a questa categoria forse conveniente ma di sicuro poco onorevole. E noi insistiamo a credere che ci abbia rimesso. In termini di immagine perché il Dalai Lama veniva a parlare dei mondiali di calcio che il Sudafrica ospiterà nel 2010 e dei rapporti tra sport e tolleranza (a proposito, la Fifa tacerà?). In termini di credibilità politica perché un Occidente che alterna «audaci» incontri con il Dalai Lama (Sarkozy) a distratte ipocrisie governative (anche in Italia), mai è giunto a negare il visto d’ingresso al premio Nobel tibetano. I commerci valgono di più, dirà qualcuno. E aggiungerà che parlare di rispetto dei diritti umani, nel mondo d’oggi, è soltanto una perdita di tempo. Noi crediamo invece che non farlo sia una perdita: di dignità.

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Negato al Dalai il visto Sudafricano

Il Dalai Lama si è visto negare il visto d’ingresso in Sudafrica, dove avrebbe dovuto prendere parte a una conferenza di Premi Nobel per la Pace. Lo dicono i media sudafricani, che adombrano presunte pressioni della Cina sul governo di Pretoria. Il leader spirituale tibetano era atteso a una conferenza dei Nobel della pace insieme ai “padroni di casa”, Desmond Tutu, Nelson Mandela e F.W. de Klerk e al mediatore Onu Martti Ahtisaari. Secondo il domenicale sudafricano ‘Sunday Independent’, la decisione è dovuta a pressioni cinesi ed avrebbe indotto Tutu a chiedere spiegazioni, minacciando di uscire dalla conferenza sbattendo la porta. Il giornale scrive che l’ambasciata cinese in Sudafrica ha confermato di aver fatto appello al governo di Pretoria perché non permetta al leader tibetano in esilio di entrare nel Paese. Il portavoce del ministero degli esteri, Ronnie Mamoepa, ha detto da parte sua che “il Sudafrica non ha rivolto alcun invito al Dalai Lama”. Secondo l’associazione internazionale Friends of Tibet, “il bando a sua santità (il Dalai Lama) è una beffa per lo spirito della conferenza di pace”.

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Arrestati 95 monaci per proteste

La polizia cinese ha arrestato 95 monaci tibetani del monastero di Ragya, in una zona a maggioranza tibetana della provincia del Qinghai, dopo che la folla aveva attaccato una caserma della polizia. Nell’attacco, avvenuto sabato 21, alcuni funzionari di polizia sono stati ”feriti in modo leggero”, secondo Nuova Cina. La stessa notizia e’ stata riportata dal sito web di tibetani in esilio Phayul, con alcune importanti differenze rispetto alla versione dell’ agenzia d’ informazione cinese. A dare il via alla protesta e’ stata la vicenda di un monaco di Ragya di 28 anni, Tashi Sagpo (Zhaxi Sabgwu in cinese), arrestato dopo che nella sua stanza erano stati trovati una bandiera tibetana e del materiale di propaganda anticinese. Portato al commissariato, il giovane sarebbe riuscito a darsi alla fuga con la scusa di andare in bagno. Da questo punto in poi le versioni di Nuova Cina e di Phayul divergono. L’ agenzia afferma che il giovane si e’ dato alla fuga con l’ aiuto di altri monaci, mentre il sito tibetano sostiene che si e’ buttato nel vicino fiume Machu, annegando. Nuova Cina precisa che sei monaci sono stati arrestati dalla polizia e che altri 89 ”si sono arresi”, un’espressione gia’ usata in passato dai mezzi d’ informazione cinesi ed il cui significato non e’ chiaro. Il monastero di Ragya si trova nella Prefettura autonoma tibetana di Golok (Guoluo in cinese), nel sud della provincia del Qinghai. Il Qinghai e la vicina provincia del Gansu sono state istituite nell’area che i tibetani chiamando Amdo, culla della setta dominante del buddhismo tibetano, quella dei Cappelli Gialli, alla quale appartiene anche il Dalai Lama, il leader buddhista che dal 1959 vive in esilio in India e rappresenta una spina nel fianco per il governo di Pechino. Nel Qinghai altri 109 monaci erano stati arrestati nel monastero di Lutsang (An Tuo) in cinese, dopo una manifestazione di protesta tenuta il 25 febbraio in occasione del capodanno tibetano (Losar). In un altro atto di protesta, sempre nella Prefettura di Golok, una rudimentale bomba e’ stata lanciata senza fare vittime contro una caserma della polizia. Nella vicina provincia del Sichuan, in un’altra aerea a popolazione tibetana, quella di Aba, un monaco ha tentato di darsi fuoco per protesta alla fine di febbraio ed e’ stato bloccato dalla polizia cinese. Dalla prima settimana di marzo quasi tutte le aree a popolazione tibetana della Cina – la Regione Autonoma del Tibet e le aree tibetane del Qinghai, del Sichuan e del Gansu – sono strettamente controllate dalle forze di sicurezza cinesi, che impediscono le visite agli osservatori indipendenti. Il ”lock down” e’ stato deciso in vista di alcune scadenze ”delicate”: il 10 marzo, che ha segnato i 50 anni della fuga in India del Dalai Lama; il 14 marzo, primo anniversario degli incidenti del 2008 a Lhasa, quando giovani tibetani hanno attaccato negozi e case degli immigrati cinesi uccidendone una ventina; infine il 28 marzo si celebrera’ per la prima volta la ”festa della liberazione dalla schiavitu”’, indetta dal governo di Pechino in occasione del cinquantesimo anniversario della formazione del primo governo filocinese del Tibet, a pochi giorni dalla fuga del Dalai Lama.

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La Cina intende ‘modernizzare’ Lhasa

La Cina ha varato un piano per ”ridisegnare” Lhasa, la capitale del Tibet, in modo da farne per il 2020 ”una moderna metropoli”. Lo afferma oggi la stampa cinese. Secondo un documento del governo citato negli articoli, nei prossimi undici anni Lhasa diventera’ una citta’ ”economicamente prospera, ecologica, moderna, con vive caratteristiche culturali e profonde tradizioni etniche”. Dall’inizio di marzo, i giornali cinesi dedicano spazio ogni giorno alle iniziative delle autorita’ cinesi a favore del Tibet, in uno sforzo di propaganda che accompagna lo stato d’assedio imposto nelle zone a popolazione tibetana della Cina e volto a fronteggiare una serie di scadenze difficili: le prime due, il cinquantesimo anniversario della fuga in India del Dalai Lama e il primo delle violenze del 14 marzo 2008, sono passate senza grandi incidenti. Manifestazioni anticinesi ed arresti sono stati segnalati nelle zone tibetane del Qinghai e del Sichuan, mentre due rudimentali bombe sono state lanciate senza fare vittime contro auto della polizia nelle stesse province. Secondo gli articoli pubblicati oggi dalla stampa cinese, il governo di Pechino ha stabilito che le autorita’ locali devono ”preservare con cura” l’architettura della citta’, le sue importanti reliquie culturali e gli onnipresenti siti religiosi. Inoltre, le autorita’ locali devono ”mantenere un equilibrio tra la civilizzazione antica e quella moderna, tra le zone nuove e quelle antiche, tra le risorse naturali e quelle umanistiche”. I giornali ricordano che quando fu fatto il primo censimento, nel 1953, gli abitanti di Lhasa risultarono 30mila, ”quattromila dei quali erano mendicanti”. Dopo gli innumerevoli atti di vandalismo della Rivoluzione Culturale (1966-76), la ricostruzione di Lhasa inizio’ negli anni ottanta, tra le critiche degli esuli tibetani e degli urbanisti occidentali. Uno di loro, Scott Leckie, defini’ l’ intervento delle autorita’ cinesi ”un processo di pianificazione che ignora gran parte della popolazione, mina i diritti umani e cerca di distruggere l’ identita’ culturale dei tibetani”. Fondata nel settimo secolo, Lhasa e’ cresciuta intorno a due aree: quella del Jokhang, il principale tempio buddhista, e quella residenziale chiamata ”Schol”. Successivamente la citta’ si e’ allargata verso nord e verso ovest, le aree dove sorgono gli alberghi, i ristornati ed i night in genere posseduti dagli immigrati cinesi. Anche in centro storico, il quartiere che sorge intorno al Jokhang, vaste aree furono occupate dai ricchi (relativamente ai locali tibetani) commercianti cinesi han, in gran parte provenienti dalla vicina provincia del Sichuan, e da musulmani hui. Da un’inchiesta realizzata dall’Universita’ di Pechino nel 2007, risulto’ che tra le diverse comunita’ l’interazione era minima. Secondo l’inchiesta i tibetani residenti nella citta’ vecchia ”tendono a non avere amici han” e i cinesi han ”sono generalmente male informati sui tibetani”. L’ anno scorso la tensione tra le diverse comunita’ e’ esplosa con violenza il 14 marzo, quando giovani tibetani hanno attaccato negozi e ristoranti degli immigrati, uccidendone una ventina. Secondo il quotidiano China Daily, il progetto governativo prevede che la popolazione della citta’ sia contenuta entro le 450mila persone, contro le 500mila che la abitano oggi.

fonte: Ansa

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Un anniversario di silenzio per il Tibet

Un anniversario all’insegna della tristezza, della delusione, della disperazione. E’ questo il sentimento che aleggia a Dharamsala, la cittadina nel nord dell’India sede da mezzo secolo del governo tibetano in esilio. Qui oggi il leader spirituale e temporale dei buddisti tibetani, il Dalai Lama, terrà il suo discorso di commemorazione in occasione della ricorrenza dell’invasione tibetana del 1959. Qui si sono riuniti attivisti e monaci da tutto il mondo, Italia compresa. Da qui partirà una marcia silenziosa che durerà tutta la notte, ricordando gli oltre un milione di morti a causa dell’invasione e della repressione. In ballo c’è l’esistenza stessa del popolo tibetano, le sue millenarie tradizioni, culture, la lingua. Il Dalai Lama ha presieduto ieri pomeriggio nel più grande tempio tibetano di Dharamsala, il Tsuglag-Khang, una cerimonia religiosa alla quale hanno partecipato migliaia di persone. Manifestazioni sono previste nel nord dell’India, ma anche in Nepal, Bhutan e in altre parti del pianeta per protestare contro l’invasione cinese del Tibet. A Delhi la polizia ha dichiarato off limits la zona dell’ambasciata cinese. A Kathmandu il governo nepalese ha vietato le manifestazioni anticinesi. L’esercito cinese ha aumentato i controlli, isolando totalmente il Tibet. dove le proteste vengono soffocate dalla polizia al loro nascere, come in altre èparti della Cina. Nella provincia del Qinghai, più di cento monaci, dei circa 300 religiosi che di solito vivono nel monastero di Lutsang (An Tuo in cinese), sono stati arrestati dopo una manifestazione per le festivita’ del Capodanno tibetano (Losar), che si e’ celebrato il 25 febbraio. Anche due giornalisti italiani, il corrispondente dell’Ansa da Pechino e l’inviato di Sky Tg 24, che si trovavano nei pressi del monastero a raccogliere informazioni circa gli arresti,sono stati detenuti per tre ore dalla polizia. Sempre nel Qinghai una bomba e’ esplosa oggi senza fare vittime in un commissariato. La Cina non vuole sapere ragioni e sta facendo pressioni sul mondo intero per affermare il suo controllo sul Tibet. Parlando ai tremila delegati dell’Assemblea nazionale del popolo (il Parlamento di Pechino), il presidente cinese Hu Jintao ha detto che la Cina deve creare ‘”una Grande Muraglia di stabilità” intorno al Tibet per bloccare il “secessionismo”. Ma a queste parole, il Dalai Lama opporrà oggi la sua ferma richiesta per una genuina autonomia del Tibet. La stessa richiesta che il leader tibetano avanza da decenni. ‘’Questi 50 anni – recita un passaggio del discorso del premio Nobel, del quale alcuni stralci sono stati diffusi dagli uffici del governo tibetano in esilio – hanno portato in sofferenza e distruzione il popolo e il territorio del Tibet. Ancora oggi i tibetani vivono in costante paura. Ma noi vogliamo il rispetto delle nostre tradizioni, vogliamo essere autonomi’’. Il leader tibetano parlerà di coesistenza e amicizia con i cinesi, ma di rispetto delle identità ottenibile solo con l’autonomia. Una richiesta che però non prescinde dalla “via di mezzo”, dalla ricerca dell’autonomia ottenuta attraverso la non violenza, in contrapposizione ai giovani dei movimenti tibetani che chiedevano una rivolta incisiva. Il discorso di oggi cade anche ad un anno dall’inizio dei moti di Lhasa dell’anno scorso, in concomitanza con il passaggio per il Tibet della fiaccola Olimpica, durante il quale ci furono scontri e morti tra esercito cinese e tibetani. In quella occasione Pechino attaccò il Dalai Lama e la “sua cricca”. Un anno fa le proteste sono partite a Lhasa, la capitale del Tibet, e sono sfociate in violenze, secondo fonti ufficiali di Pechino, contro gli immigrati cinesi 22 dei quali sarebbero stati uccisi. Le manifestazioni sono poi proseguite fino a maggio. Secondo il governo tibetano in esilio le vittime sono state almeno duecento. La International Campaign for Tibet (Itc), un gruppo basato a Washington, sostiene in un rapporto che dallo scorso marzo 1200 tibetani sono “scomparsi”. Il settantatreenne monaco tibetano, premio Nobel per la Pace, è stato anche per questo messo in discussione da diversi movimenti tibetani, ma negli stati generali tibetani convocati lo scorso novembre, ha avuto il pieno appoggio alla sua “via di mezzo”. Alla quale, oggi, dovrà dare nuovo vigore per sperare di non dover commemorare più l’invasione cinese.

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Arrestati monaci in Tibet e detenuti anche due giornalisti italiani

Più di 100 monaci del monastero tibetano di An Tuo, nella provincia cinese di Qinghai, sono stati arrestati dopo una manifestazione tenuta in occasione del Capodanno tibetano, che si è celebrato il 25 febbraio. Lo hanno affermato oggi alcuni monaci dello stesso monastero parlando con due giornalisti italiani, il corrispondente dell’ANSA e quello di Sky Tg24, che subito dopo sono stati fermati dalla polizia per tre ore. Gli arresti sono stati 109 sui circa 300 monaci che vivono abitualmente nel monastero. I monaci di An Tuo hanno aggiunto che domani, 50/mo anniversario della rivolta tibetana che si è conclusa con la fuga in India del Dalai Lama, potrebbero verificarsi altre manifestazioni. Poco dopo essere usciti dal monastero, i due giornalisti italiani sono stati fermati dalla polizia e trattenuti per oltre tre ore, pur non avendo violato alcuna legge cinese. La polizia non ha dato spiegazioni sulle ragioni del fermo. Un altro episodio di protesta si è verificato oggi nella provincia del Qinghai, nella contea di Guoluo, dove due auto della polizia sono state colpite da una rudimentale bomba. Sia la contea di Guinan, che quella di Guoluo, hanno la popolazione in gran parte tibetana.

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La Cina vieta al mondo di incontrare il Dalai

Duro monito al mondo intero da parte del ministro degli esteri cinese Yang Jiechi sulla questione tibetana: nessuno – ha detto – permetta al Dalai Lama di usare il territorio del proprio stato per azioni che favoriscano la separazione del Tibet dalla Cina. Si avvicinano importanti ricorrenze che fanno temere alle autorità di Pechino nuove ondate di proteste degli attivisti pro-Tibet. In questo contesto il ministro degli esteri ha ricordato che “Il Dalai Lama vuole creare un Grande Tibet che comprenda un quarto dell’intero territorio cinese”. Il Dalai Lama e i suoi accoliti, secondo Yang Jiechi, “vogliono cacciare le forze armate cinesi e chiedere ai non tibetani di andare a vivere altrove (…) E voi lo definite una personalità religiosa”. “Se vogliono sviluppare i rapporti con la Cina, gli altri paesi non devono permettere al Dalai lama di visitarli e non devono permettergli di usare il loro territorio per attività separatiste che mirino all’indipendenza del Tibet”, ha detto. I due anniversari ritenuti particolarmente pericolosi in questi giorni da Pechino sono il 50/o anniversario dell’esilio del Dali Lama, cha cade martedì prossimo, e il primo anniversario della rivolta scoppiata il 14 marzo scorso a Lhasa, con decine di morti.

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